«Ai nuovi manager dico: scegliete le imprese che vogliono espandersi e dove si fa formazione»
Intervista a Gianni Mion, decano dei dirigenti d'azienda, sui segreti della professione: «Rispetto a sessant'anni fa i cambiamenti sono stati micidiali»

«I manager nel Nordest? Rispetto a sessant'anni fa i cambiamenti sono stati micidiali». Gianni Mion, classe 1943, è un po' il decano dei dirigenti d'azienda made in Veneto. Padovano di Vo' Euganeo, durante la sua carriera è stato fra l'altro direttore generale della parastatale Gepi e poi cfo del Gruppo Marzotto, prima di approdare a Edizione Holding e a un'esperienza professionale lunga più di trent'anni a fianco della famiglia Benetton. A Gilberto Benetton dice di riservare «eterna gratitudine». Se richiesto comunque parla con realismo e senza sconti sia della presidenza della Popolare di Vicenza, poi finita in liquidazione coatta amministrativa, che della seconda chiamata in Edizione, dopo il crollo del Ponte Morandi.
Dottor Mion, parliamo di manager. Cosa è cambiato in questi sessant'anni?
«Ci sono stati grandi progressi. Un tempo i gruppi di una certa taglia nel Nordest erano pochi, per esempio Zanussi, Chiari&Forti, Marzotto. Erano aziende padronali che avevano una dirigenza. Ma erano poche».Da quel ristretto novero di grandi aziende, ne sono germinate altre.«Come la stessa Benetton. Negli anni '60 ebbe una crescita esplosiva e i primi manager li prese dalla Zanussi e dalla SanRemo di Caerano San Marco. Come Elio Aluffi o Aldo Palmeri».
Poi le aziende di media e grande taglia sul territorio si sono moltiplicate.
«Certo. E ora si va sempre più verso la seconda generazione di imprenditori, il 60-70% delle nostre imprese cambieranno proprietà».Manager e famiglie imprenditoriali. Il rapporto com'è?«Il ruolo dei manager dipende dagli azionisti. Se l'azionista gioca in difesa, basta il classico uomo di fiducia. Se però l'azionista vuole crescere, il manager è decisivo».
L'azionista nel Nordest spesso è l'imprenditore che non vuole delegare.
«Vero. Però io le cito il caso di Leonardo Del Vecchio, una leggenda. Lui assunse subito, agli albori della sua azienda, il capoufficina Luigi Francavilla. Delegò dall'inizio. E ricordo ancora il cda in cui chiamò Andrea Guerra come ad al posto di Roberto Chemello. Guerra fece la sua relazione e alla fine Del Vecchio si rivolse a Francavilla dicendo: "Vero che questi sono meglio di noi?"».
L'imperativo di crescere. Lo vede proprio sempre nelle nostre aziende?
«Il tempo di autolimitarsi è finito, sono impressionato da quel che sta succedendo in Paesi come la Cina o l'India, alzeranno molto il grado di competizione nel mondo. Noi in Italia e nel Nordest siamo bravissimi a produrre oggetti ben fatti, che hanno tradizione e design: scarpe, abbigliamento, attrezzi sportivi e così via. Ma stiamo facendo di tutto per creare grandi aziende in questi settori?»
Che risposta si dà?
«In Veneto ci sono grandi opportunità, non sempre sfruttate appieno. A Montebelluna, accanto a Tecnica sono venute a produrre tutte le multinazionali della scarpa sportiva. Tecnica però è rimasta lì».
Torniamo ai manager. Lei che consigli darebbe a chi inizia?
«Due. Il primo è cercare aziende che abbiano un progetto di crescita. Sennò che ci vai a fare? Il secondo è cercare aziende dove si faccia formazione e dove ci siano opportunità di imparare. Un esempio? De' Longhi ha preso il nuovo direttore generale, Nicola Serafin. Dal curriculum si vede che ha fatto molte esperienze, e si percepisce che la De' Longhi è un'azienda dove ti fanno girare e imparare. La formazione è importantissima».
Delle nostre università cosa pensa?
«I progressi ci sono stati. In Italia abbiamo un grande problema nella scuola: fino alle superiori si studia poco. E si studia poco perché gli insegnanti sono pagati pochissimo. Questo è un aspetto drammatico e se ne parla pochissimo».
Anche gli imprenditori devono fare formazione?
«Certo. Però anche qui la situazione è migliorata. Guardiamo Confindustria. Prima le territoriali curavano solo relazioni sindacali e fisco, adesso in un'operazione come Confindutria Veneto Est vedo anche altro».
Mi citi manager bravi che ha visto lavorare.
«Stefano Beraldo, da cfo in Sme Gs fu decisivo. Poi Chemello. E Carlo Bertazzo, ex ad di Edizione».
La Borsa è importante per le imprese e per i manager?
«Ti misura la febbre ogni giorno e ti incentiva a crescere. Però è anche vero che colossi come Ferrero e Barilla non sono quotati».
Nel Nordest i fondi stanno facendo shopping da anni. È positivo?
«Sì perché puntano alla crescita. Poi è positiva questa tendenza a creare poli attorno alle filiere. È il tipo di operazione che fa il mio compagno di università Gianni Gajo con Alcedo».
Con i passaggi generazionali queste operazioni si moltiplicheranno.
«Non vedo perché a un erede si debba infliggere la pena di un'azienda che non sente sua. Del Vecchio pensò per tempo a separare l'azienda, affidata ai manager, dalla famiglia, alla quale ha consegnato il patrimonio».
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