Arrivederci Cina: ora la manifattura può scegliere
PADOVA. Non è una moda ma nemmeno un trend. Non ha i numeri per fare statistica ma viene costantemente monitorato. Regge i criteri della notizia, ma non smuove ancora occupazione. Gli esperti parlano di «prime evidenze» e di «ricerche di tipo esplorativo» sul tema del reshoring, ovvero del rimpatrio delle produzioni.
Ritorno dalla Cina
Il database più completo e aggiornato sul fenomeno è quello di Uniclub More che riunisce le università de L’Aquila, Udine, Bologna, Catania, Modena e Reggio Emilia. Contiene 570 decisioni di revisione delle precedenti strategie di off-shoring (internazionalizzazione) da parte di 459 aziende, in quanto esistono casi di decisione multipla. Questo, a livello mondiale. Il back-reshoring è infatti principalmente diffuso in Usa e poi in Europa, dove primeggiano proprio l’Italia, la Germania e la Gran Bretagna. Dai dati emerge che è la Cina il principale Paese colpito dal fenomeno dei rientri che, necessariamente, non è detto che siano totali. Anzi. A volte si parla di parti del processo produttivo o di linee di prodotto. La Cina, dunque, non sembra essere più la “fabbrica del mondo”. Ma non lo è neanche il Sud Est Asiatico, mentre gli abbandoni che riguardano l’Europa dell’Est riguardano aziende comunitarie. Italia compresa. I comparti che rientrano sono ben definiti: fashion, che comprende anche calzature e occhialeria, e metalmeccanico.
Rientro a step
Se si guarda all’Italia è il Nord del Paese a ritornare in patria. Veneto in testa. Il Nordest rappresenta circa il 35% delle decisioni, una su tre. «Un dato fortemente correlato alla delocalizzazione degli scorsi decenni» precisa Luciano Fratocchi, docente del dipartimento di Economia dell'Università dell'Aquila. Di queste 36 decisioni a Nordest (27 in Veneto e 6 in Friuli Venezia Giulia) più 5 di avvicinamento, che non è un vero e proprio ritorno ma uno step intermedio, almeno 10 sono dai Balcani e altrettante dalla Cina. Perlopiù aziende del sistema moda. «È ancora difficile parlare di trend - spiega Fratocchi -: numericamente il fenomeno non è sconvolgente nemmeno negli Usa che è il luogo dove ha dato i suoi massimi effetti, e per la prima volta nel 2015 il numero di lavori persi per delocalizzazione è stato compensato dal rientro delle produzioni». Ma un’inversione di tendenza c’è.
L’effetto sull’occupazione
«Quando iniziò la prima delocalizzazione negli anni ’90 - spiegano Gianluca Toschi e Silvia Oliva della Fondazione Nord Est - i primi dati vennero contenuti nel database Reprint che viveva di fonti giornalistiche. Ora siamo in questa fase anche per il reshoring dove il dato ha una debolezza scientifica legato proprio alla fonte stampa. Ma è evidente che si tratta di una dinamica da analizzare». «Oggi queste decisioni non creano nuovi posti di lavoro ma permettono la sopravvivenza di quelli esistenti - dice Fratocchi - è il caso della Fiamm il cui stabilimento ad Avezzano avrebbe chiuso se non ci fosse stato il trasferimento delle produzioni dalla Repubblica Ceca». Reshoring, dunque, con un effetto difensivo ma con il tempo può diventare espansivo.
«Nella divisione del lavoro a livello internazionale l’Italia è ancora interessante perché è specializzata in una manifattura di grande qualità e all’estero ne riconoscono il valore, soprattutto nella fascia alta di mercato» spiega Marco Bettiol, docente all’Università di Padova. «È vero che le differenze di costo non sono più abissali come un tempo, e questo può portare le aziende a rivedere la convenienza di alcuni investimenti all'estero. Allo stesso tempo è altrettanto vero che il livello delle qualità media della produzione anche nel Far East è aumentato. Le aziende hanno davvero molte opzioni per le loro strategie produttive che possono essere modulate in base alla strategia adottata» spiega Bettiol.
E sono proprio le motivazioni il driver di una possibile espansione del fenomeno: la maggiore attenzione del pubblico straniero alla reale produzione in Italia, come spiega il caso della Columbus (And Camicie) che negli anni ’90 delocalizzò in Romania «dove ancora oggi è allocata gran parte della produzione» racconta Bettiol nel volume «Raccontare il made in Italy». «Ma oggi, sotto la spinta del mercato cinese, sta tornando in Italia. Zong Qinghou nei suoi mall vuole offrire ai suoi clienti un prodotto di alta qualità capace di trasmettere lo stile italiano».
Qualità e orgoglio
Il secondo aspetto è dunque la qualità. Il terzo è il cambio del business model: la fast fashion di Zara ha rotto le regole e le collezioni sono aumentate; e questo ha avuto un impatto sulla produzione e i suoi tempi. Ma c’è anche una componente di orgoglio che qui ancora non radica: «Molte aziende italiane non si vantano di essere ritornate perché dovrebbero ammettere che in passato sono andate via – chiosa Fratocchi –. Comunicare l'evento positivo, ora, danneggia il passato ma il reshoring è una leva di marketing: in Usa e Uk le aziende del fashion rientrate lo scrivono in homepage». L’eccezione qui è la Fitwell di Pederobba, il cui imprenditore Giuliano Grotto ha creduto con orgoglio fino in fondo nell’Italia e, dopo aver partecipato all’ondata di delocalizzazione, è tornato per anche una componente emotiva.
Gli errori del passato
Ma di non solo orgoglio si tratta. «Abbiamo monitorato - spiegano dalla Fondazione Nord Est - diversi casi di fallimento della strategia delocalizzativa dove il ritorno è legato ai costi nascosti della delocalizzazione come la logistica, tassi di cambio e minore produttività». Eppure, spiega Toschi, «siamo in una nuova fase in cui, dopo aver delocalizzato per anni le funzioni a basso valore aggiunto come la manifattura, i nuovi studi puntano proprio sul saper fare come l’elemento di innovazione. Stiamo entrando dunque in una nuova fase che dà valore alla produzione e non guarda il costo ma la conoscenza».
«È anche vero - aggiunge Fratocchi - che l’idea di rientrare in Italia spesso si deve ad azionisti stranieri che apprezzano proprio il fatto in Italia e qui lo mantengono». Sono i casi Lvmh e Bottega Veneta.
La dinamica è monitorata anche dall’Ufficio studi di Intesa Sanpaolo che, nel fenomeno del rientro degli investimenti italiani annovera come seconda voce di peso l’arrivo di nuovi marchi internazionali in cerca di qualità. Maggiore produttività, riduzione del time to market (tempo di commercializzazione) e qualità sono gli obiettivi che spingono le aziende a tornare, scrive Intesa Sanpaolo nel rapporto annuale. «Le motivazioni sono soggettive, difficile stilare una casistica - conferma Monica Cristanelli, responsabile dell’Ufficio Internazionalizzazione di Intesa -. A livello geografico le aree “lasciate” sono Cina, Bangladesh e Romania.
Parliamo di grandi-medie aziende».
«Oggi il rimpatrio può essere agevolato dalla legge di Stabilità, che consente di sviluppare investimenti con detrazione delle tasse al 140% - aggiunge il direttore Cariveneto Renzo Simonato -. Il reshoring offre benefici all’economia generale, rende questa regione più attrattiva e grazie all’evoluzione del commercio online ci sarà un’evoluzione anche negli accordi di mercato». A favore del made in Italy.
Quello che è certo è che le Nazioni Unite hanno riconosciuto la rilevanza del back reshoring sollecitando l’adozione di politiche economiche tese a favorirlo. Ma «nonostante la sua logica evolutiva, non necessariamente deve essere incrementale e lineare - spiega Fratocchi - potendosi alternare decisioni di de-internazionalizzazione con altre di re-internazionalizzazione».
C’è possibilità di scelta
L’impresa, insomma, ha più alternative: off-shoring di secondo livello andando più lontano (Cina) da dove ha già delocalizzato (Romania), near-shoring ovvero avvicinare la produzione già delocalizzata (da Cina a Romania, per esempio) o back-reshoring riportando la produzione nel paese d’origine o casa madre. «Il reshoring è un fenomeno interessante - conferma Bettiol - è difficile tuttavia ipotizzare il ritorno di una manifattura di quantità: la produzione all’estero è spesso funzionale a una strategia più ampia dell'azienda».
Eleonora Vallin
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