Aziende piccole, dinamiche e aggressive. Ma devono ancora imparare a crescere
UDINE - Delle oltre 90 mila aziende attive, TOP 500 prende in considerazioni solo lo 0,6% del totale.
Un numero minuscolo in un Paese e una regione troppo abituati a guardare più al piccolo che al grande, sempre incantato dalle storie del nostro sistema produttivo cellulare con micro e piccole imprese (quelle con meno di 50).
È questa una diagnosi che poco ci aiuta a guardare al futuro, visto che dovrebbe far riflettere come export, produttiva e ricerca&sviluppo, come ci ricordano continuamente Istat, Ice e Banca Italia, oltre a moltissimi studiosi, dipendano positivamente dalla dimensione aziendale: in questo senso, più grande, in un mondo globalizzato e tecnologicamente avanzato, è meglio.
Non è quindi un caso che guardare alla media e grande impresa ci può aiutare a capire meglio la dinamica occupazionale: nel 2016, le 96 aziende regionali con più di 250 addetti davano lavoro a un quarto degli occupati nel settore privato.
Considerando le poco meno di 600 imprese con più di 50 dipendenti, qui vi troviamo 4 dipendenti su 10. Queste brevi considerazioni spero aiutino a capire perché le traiettorie segnate dall’evoluzione delle Top 500 rappresentano dei segnali molto importanti per il nostro futuro.
DATI GENERALI
Nel 2017, mentre il Pil regionale cresceva del 1,3% e gli occupati complessivi dello 0,8%, le Top 500 registravano fatturati medi in crescita del 8,7% (quello complessivo sale del 9,4%), valore medio della produzione: +12%; redditività operativa che cresce mediamente del 20% e utili a +70%.
Le ottime performance delle Top 500 hanno nascosto molte criticità dell’economia regionale, perché esiste una frattura nei risultati dei primi della classe e di tutti gli altri, un tema che meriterebbe approfondimenti più ampi e strutturati.
Guardando alle aree che compongono la regione, emerge lo slancio trainante di Trieste. Grazie al suo ruolo amministrativo di sede della Regione, all’ecosistema legato al porto che facilita la connessione con il resto del mondo e all’ampio spettro di enti di alta formazione che assicurano un flusso continuo di persone altamente qualificate, il capoluogo giuliano è capace di generare da solo 1/3 del fatturato complessivo con il 13% delle aziende (Udine: 40% del fatturato, 42% delle aziende; Pordenone: 1/4 del fatturato con 1/3 delle aziende; Gorizia: meno del 5% del fatturato con 1/10 delle aziende).
Questo primato giuliano non si riflette solo sull’occupazione, con Trieste subito dietro all’area pordenonese per il più alto tasso di occupazione e il più basso tasso di disoccupazione e inattività, ma su altre importanti variabili. Ne cito due in particolare: l’alto reddito dei dipendenti, superiore del 6% rispetto alla media regionale e quasi del 7% rispetto al Friuli, e soprattutto un più alto valore aggiunto di attività ad alta intensità di conoscenza.
Stante così le cose, la distanza del territorio giuliano dal resto della regione rischia di aumentare.
OCCHIO ALLA DIPENDENZA
A livello di sistema, si nota ancora un’ampia varietà nella distribuzione settoriale e geografica delle aziende che ci permette di avere un ecosistema con buone capacità di recupero, anche se il ruolo trainante di aziende leader come Fincantieri (10% dell’intero fatturato regionale) espone la regione ad una dipendenza che può essere tossica.
Uno squilibrio che vede le prime 10 aziende in classifica farla da padrone: il loro valore della produzione è pari al 35% del totale (27% senza Fincantieri) e realizzano il 27% del totale degli utili (19% senza Fincantieri).
Dobbiamo stare attenti perché questi profili di disparità non si possono arginare semplicemente elargendo denari pubblici senza il coraggio di operare delle scelte forti. E la disparità è nemica dello sviluppo. Infine, ricordiamo che con Valle d’Aosta e Abruzzo siamo la regione che più dipende dall’export per il suo benessere.
Ma le migliori aziende del Friuli Venezia Giulia vendono principalmente beni strumentali, non beni di consumo, e mal controllano il mercato finale. Questo le rende, cioè ci rende, più vulnerabili alle continue intemperie dell’economia internazionali.
Per tutelarci dovremmo almeno allinearci alle migliori pratiche internazionali in ogni ambito, dall’istruzione (quasi ci siamo), alle amministrazioni (fare meno e fare meglio), alle infrastrutture (banda ultra-larga e servizi digitali arrivano o sappiamo solo allargare strade e fare rotonde?), alla capacità di fare rete del sistemo produttivo: sarebbe bene tornare tutti a remare insieme.
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