Bachi, bozzoli e telai: si ritorna a produrre la seta

Fare impresa con una macchina del 1971 (una filandina restaurata dopo un lungo abbandono) e una tradizione del secolo scorso. Gianpietro Zonta e la moglie Daniela Raccanello, titolari dell’azienda orafa vicentina “D’orica” di Nove, hanno rispedito al mittente le offerte dei produttori di seta cinesi e riscoperto un amico degli allevatori veneti, negli ultimi tempi un po’ trascurato: il baco da seta. Che non ha il passo dell’industria moderna, necessita di attenzioni continue, ed è pure un’attività stagionale, perché se non ci sono le foglie di gelso fresche il baco non mangia, non cresce, non fila.
Poco importa, perché l’industria slow, legata a tradizione e filiera corta, è quella che il mercato di nicchia apprezza di più. E allora Zonta e la moglie hanno deciso di lanciare una linea di seta e oro, in cui la seta sia prodotta come avveniva cent’anni fa in Veneto. Con il lento, e prezioso, lavoro dei bachi. «Questo perché non volevamo una buona qualità, ma un’ottima qualità» spiega Zonta «noi compriamo i bozzoli, e li trasformiamo in filato. Scegliamo solo il prodotto migliore. La filosofia è quella di completare l’intera filiera qui, in Veneto, e di usare la seta per le creazioni che saranno vendute nel prossimo futuro».
Materie prime
Dai bachi ai gioielli: i primi arrivano dal Crea di Padova (Unità di ricerca di apicoltura e bachicoltura), mentre la filandina che trasforma i bozzoli (150 chili in totale) in filo di seta (circa 50 chili di seta grezza) è stata installata all’interno di D’orica a dicembre 2015. Tra il bozzolo e il luccichio dei monili c’è tutto un mondo fatto di relazioni, competenze artigianali, contatti con professionisti di un’arte, più che di un lavoro, che sembrava perduta per sempre. È la filiera della seta a cui tanto tiene Zonta: un team di imprenditori, professionisti e ricercatori che hanno creduto nel progetto di D’orica e ne hanno avviato un altro, ribattezzato “La Rinascita della Via della Seta”, che comprende tutti gli step di questa riscoperta del bozzolo. Ci sono, nel team, persone come Silvia Cappellozza, responsabile scientifico del Crea-Api di Padova, o come Flavio Crippa, archeologo industriale e consulente tecnico-scientifico del “Museo della Seta Abegg” di Garlate, studioso dell’arte serica e punto di riferimento per il settore. Ci sono le singole individualità, ma anche le aziende e le cooperative, tra cui la Campoverde e la Ca’ Cornian, che utilizzano il ciclo di vita del baco come laboratorio didattico per i loro ospiti.
Un progetto così bello non poteva passare inosservato: la scorsa primavera, la Commissione Europea ha selezionato “La Rinascita della Via della Seta” fra i migliori quattro progetti di rete, fra le tante candidature arrivate da tutta Europa. E l’ultimo prodotto della filiera, i gioielli in seta italiana e oro, adesso sono attesi dalla prova dei mercati. Quella di Zonta e del suo team è l’intuizione più originale e più strutturata, ma sono decine gli allevatori che singolarmente vogliono tornare ai bachi. E molti non sanno nemmeno del successo dell’iniziativa di D’orica.
Oblio ventennale
Un fenomeno esploso l’anno scorso dopo un oblio ventennale: la seta made in Italy è richiesta perché i produttori cinesi sono sempre più cari e offrono una qualità sempre minore. È di questi giorni la notizia che a Paese, nel Trevigiano, è nata l’Associazione Italiana Gelsi Bachicoltura, presieduta da Fernando Pellizzari, ultimo presidente dell’Associazione Nazionale Bachicoltori sciolta qualche anno fa. «La riscoperta di questa attività sta avvenendo in tutta Italia, ci sono ragazzi che ai bachi dedicano le tesi di laurea, e industrie cosmetiche, farmaceutiche e orafo-artigianali interessate alla seta di qualità made in Italy», spiega Pellizzari, «in Veneto gli allevatori sono una trentina, ma pensiamo di raddoppiare nell’anno in corso. Si tratta di aziende agricole che hanno un’altra attività principale, e che utilizzano la bachicoltura come integrazione del reddito. La fortuna è che a Padova abbiamo il Centro Sperimentale di Bachicoltura: alleviamo 204 razze di bachi in purezza e 56 varietà di gelsi».
Pellizzari è atteso da due conferenze in Sicilia sulla bachicoltura. Ne ha già tenute in tutta Italia, ma l’epicentro di questa riscoperta è in Veneto. Sia per la struttura di Padova, sia per una tradizione contadina che ha visto nei bachi una delle principali forme di sostentamento, per anni. «Oggi è tutto diverso», continua Pellizzari, «ma il ritorno alla seta c’è eccome, e riguarda anche il Friuli Venezia Giulia, il Piemonte e l’Emilia. Al Sud è diverso, perché lì la tradizione non si era interrotta così bruscamente».
Tutto è cambiato
Certo, rispetto a cinquant’anni fa, quando i bachi venivano allevati nelle cucine delle famiglie contadine perché potessero stare al caldo, è tutto cambiato. Le foglie di gelso, il nutrimento degli animaletti, una volta venivano sminuzzate manualmente, mentre oggi i consorzi agrari vendono una sorta di mangime ricavato dalla pianta, molto più facile (e più rapido) da somministrare. Il fascino del vecchio mestiere però è rimasto. La sfida è dare a una tradizione antica un’impostazione industriale, e sembra che la congiuntura del mercato sia, per una volta, favorevole: «C’è chi con i filarini ha riempito i capannoni dismessi», racconta Walter Feltrin, di Coldiretti Treviso, «come associazione di categoria ci sentiamo di incentivare questa tradizione. La gelsicoltura e la bachicoltura sono interessanti per diversi motivi, e gli allevatori possono anche accedere a dei contributi specifici».
Feltrin, come hanno raccontato Zonta e Pellizzari, spiega che il mercato sta iniziando ad abbandonare la seta cinese perché è troppo sottile e si rompe facilmente, oltre a essere più costosa che nel recente passato. Quella che filano i bachi è una sostanza completamente diversa per qualità e resistenza: un’occasione unica per i produttori italiani. «Nel Trevigiano oggi ci sono una decina di allevatori» conclude il presidente di Coldiretti «ma l’obiettivo è creare la filiera completa, che comprenda chi pianta il gelso, i Consorzi Agrari, l’allevatore dei bachi, l’orafo o l’artigiano che compra la seta, il commerciale che la vende. La riscoperta del baco è una storia che si sta ancora scrivendo: ora pensiamo a censire gli allevatori».
Mondo della cultura
Una storia industriale ma non solo: ora che il baco è uscito dal bozzolo, mette sempre più spesso il naso anche nel mondo della cultura e del costume. A Mogliano Veneto e a Vittorio Veneto due vecchie filande abbandonate sono rinate in musei. A Vittorio, in particolare, il museo è all’interno dell’ex filanda Maffi, frazione di San Giacomo di Veglia. Una struttura dismessa negli anni Sessanta del Novecento che oggi rappresenta uno dei complessi industriali più antichi (e più visitati) della zona, meta di laboratori didattici frequentati sia dai bambini delle scuole elementari che dagli studenti universitari. A Mogliano è l’ex filanda di Motta di Campocroce ad aver ospitato, a marzo di un anno fa, il convegno di Coldiretti sulla riscoperta della bachicoltura. E nel Bellunese, dalle parti di Sedico, Veneto Agricoltura, ente della Regione, ha apparecchiato la tavola dei bachi mettendo a dimora 2.600 gelsi in un ettaro di sua proprietà.
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