Bernabè: «Trump può governare senza contrappesi. Rischi per l’Europa»

L’analisi del top manager per anni alla guida delle più grandi imprese italiane. «Al nostro continente resterà il ruolo di vaso di coccio tra Usa, Cina e Russia»

Giorgio Barbieri

«Durante il suo primo mandato Donald Trump era stato condizionato dall’apparato politico-amministrativo del Partito repubblicano. Oggi invece, grazie a questa vittoria netta, si potrà circondare di una corte ideologizzata di fedelissimi. Non ha contrappesi, è invecchiato e ha diverse vendette da consumare. Temo che questa presidenza sarà destinata a portare sconvolgimenti e a farne le spese sarà soprattutto l’Europa, che dovrà fare i conti con la riduzione del supporto militare americano».

È la convinzione di Franco Bernabè, una carriera al vertice delle più grandi imprese italiane, da Eni fino a Telecom, e unico occidentale per anni nel board di PetroChina, una delle più grandi compagnie petrolifere cinesi.

Insieme al giornalista Paolo Pagliaro ha da poco scritto il libro-intervista “In trappola. Ascesa e caduta delle democrazie occidentali (e come possiamo evitare la Terza guerra mondiale)”, dove individua nella presidenza di Bill Clinton l’origine della crisi del capitalismo democratico.

Perché ritiene che le cause la vittoria di Donald Trump vengano da così lontano?

«L’esito delle ultime elezioni americane è dovuto al forte risentimento del ceto medio che contrasta con un’economia che negli Stati Uniti ha effettivamente visto crescere l’occupazione e il potere d’acquisto. Ed è dovuto alla frustrazione di una classe media sempre più impoverita e dalla minaccia della Cina al settore dell’automotive. Entrambe le cause hanno la stessa origine: gli errori commessi negli anni Novanta durante la presidenza Clinton».

Quali ritiene saranno le prime misure economiche della nuova amministrazione Trump?

«Sicuramente ci sarà un rischio di ulteriori dazi sia nei confronti della Cina che dell’Europa. Tuttavia credo che continuerà a subire il condizionamento delle grandi banche d’affari con le quali ha sempre mantenuto i rapporti. Wall Street ha accolto positivamente l’esito elettorale e questo dimostra che l’establishment economico e finanziario americano vede con favore l’elezione di Trump, memore anche dei benefici ricevuti nel primo mandato».

E cosa si aspetta per quanto riguardo la politica estera?

«Prima di tutto Trump vorrà che l’Europa spenda di più per la Nato. Poi cercherà di mettere fine alla guerra con un accordo tra Russia e Ucraina, con ogni probabilità a spese di quest’ultima. E in Medio Oriente darà sostanzialmente carta bianca ad Israele che potrà occupare Gaza e la Cisgiordania. Temo che all’Europa resterà solamente il ruolo del vaso di coccio. La Germania, ossia la principale economia del continente, sta facendo i conti con gli autogol che si è autoinflitta negli anni: l’eccessiva dipendenza da una parte dalla Russia, per avere energia a basso costo, e dall’altra dalla Cina che ora non ha più bisogno delle tecnologie e dei prodotti tedeschi».

Un problema che si ripercuote anche sulle imprese del nostro Paese, in particolare quelle del Nord Est, storicamente grandi fornitrici della Germania.

«In Italia si è sviluppato un sistema di medie imprese fortemente competitive e proiettate verso i mercati internazionali che fanno dell’Italia uno dei più grandi Paesi manifatturieri del mondo. Un sistema di imprese che non viene infastidito dalla nostra complessità perché sfugge al radar della politica e opera prevalentemente all’estero. Per la Germania invece sono più pessimista».

Perché?

«La sua industria è fortemente dipendente da due settori industriali: la chimica e l’automobile. Quest’ultima è responsabile del 25% del valore aggiunto dell’industria tedesca e occupa direttamente ottocentomila persone. La messa al bando dei motori endotermici e soprattutto lo straordinario sviluppo della mobilità elettrica in Cina hanno radicalmente cambiato la prospettiva di lungo periodo dell’industria automobilistica tedesca. Il periodo di transizione sarà lungo e difficile e comporterà un ripensamento profondo di tutto il modello economico».

Tornando alle elezioni americane, perché ritiene che le origini del risentimento siano da ricercare addirittura nell’amministrazione Clinton?

«Risalgono ad allora quattro decisioni che hanno avuto un impatto storico determinando il declino dell’Occidente. La prima è stata la liberalizzazione dei mercati finanziari, che ha portato a una crisi poi gestita malissimo dall’Europa, causando un disastro nei Paesi del Sud. La seconda è stata la liberalizzazione totale delle piattaforme della rete, creando un vuoto normativo che ha consentito a cinque persone e cinque società di dominare a livello mondiale, distruggendo il sistema dell’informazione. In terzo luogo Clinton ha permesso lo smantellamento delle reti sociali, con il risultato di salari stagnanti a livelli bassi fino a oggi. Infine, ha accelerato l’ingresso della Cina nel Wto».

E questo cosa ha comportato?

«L’idea che si potesse fare a meno della manifattura, mettendo al centro del sistema economico solo finanza e tecnologia, ha portato al progressivo impoverimento della classe media occidentale, mentre nei Paesi in via di sviluppo si creava un enorme ceto medio. E questo cambio di scenario ha provocato il risentimento, forte ed emotivo, che ha portato nuovamente Donald Trump alla Casa Bianca».

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