Chiara Mio: «E’ la fine del mito della globalizzazione»
«Senza la globalizzazione dei diritti, quella economica non ha senso». Dal conflitto in Ucraina e le conseguenze sull’economia, dalla sostenibilità «che deve essere anche sociale» alle evoluzioni del mondo bancario, al rischio di un aumento della povertà nel Paese: questi i temi dell’intervista all’economista, che è anche presidente di Crédit Agricole Italia, Chiara Mio
PORDENONE. «Assistiamo alla fine del mito della globalizzazione che non può essere solo economica, ma deve comprendere i diritti». A dirlo Chiara Mio, economista, in questa intervista.
Partiamo dal conflitto in Ucraina: di fatto una guerra nel cuore dell’Europa, con conseguenze devastanti sul piano umanitario ed economico. Un conflitto che pare ci consegni un mondo nuovo. Che scenari possiamo attenderci?
«Credo che proprio il conflitto Russia-Ucraina segni la fine del mito della globalizzazione che, in termini economici, viene messo da parte. Segnando come data quella della caduta del muro di Berlino, se è vero che i capitali e la finanza oggi sono globali, come globale è il mercato, è altrettanto vero che non abbiamo globalizzato i diritti né la democrazia. Dobbiamo prendere atto che se la globalizzazione non prevede una omogeneità dei diritti, quella economica non regge».
Torneremo ai blocchi?
«Ricordiamo bene com’era il mondo prima della caduta del Muro: Usa e amici degli Usa da una parte, Urss e amici dell’Urss dall’altra. Oggi abbiamo gli Usa e la Cina, intravedo il rischio della Russia a traino della Cina, mentre l’Europa deve, e sottolineo deve, essere il terzo polo. E lo potrà fare accelerando un percorso di unione politica. L’altra cosa importante che il conflitto ha messo in evidenza, è l’estrema debolezza dell’Onu: è un organismo che va assolutamente ripensato».
Le previsioni sul Pil 2022 si dimezzano, per l’Italia e per il Nordest. Fare stime è ovviamente difficile, ma secondo lei la caduta potrebbe rallentare?
«Le previsioni dicono questo, ma se guardiamo al mondo delle imprese queste oggi si trovano nella situazione inedita di non essere in grado di evadere gli ordini, per carenza di materiali, per problemi della catena logistica o di filiere che abbiamo scoperto non presidiare più ecc. Ma non hanno problemi di mercato. Se non ci sarà un aggravarsi del conflitto e al netto dell’aumento dei costi, non vedo tracolli. Le aziende sono resilienti».
Fermo restando che l’export di Fvg e Veneto verso Russia e Ucraina non è particolarmente significativo...
«Né lo è la presenza. Escludendo alcune nicchie, non c’è una grande esposizione verso quelle aree. C’è invece altro che mi preoccupa di più rispetto all’Italia».
Che cosa?
«La povertà. Non immagino un incremento del tasso di occupazione, inoltre con l’aumento dei prezzi dei beni primari e dell’energia, ad essere penalizzati sono i più poveri. Vedo dunque un impoverimento ulteriore e vedo anche un assottigliamento della capacità di spesa per le persone che hanno un’occupazione fissa nelle fasce meno remunerate. Questa è una sfida politica, prima che economica. Non è etico avere lavoratori dipendenti con salari da 1.100 euro al mese. E non può essere un problema esclusivo delle aziende: è un tema politico. Il Paese deve saper rispondere, lavorando sul cuneo fiscale, lavorando su determinati meccanismi ed evitando di far ripartire la spesa. E la risposta non può essere sussidiaria».
Ovvero, non il reddito di cittadinanza...
«Dare a chi si trova in situazione di bisogno la possibilità di vivere dignitosamente, è un dovere. Istituzionalizzare un flusso di denaro a persone in condizioni di lavorare invece non è etico. E’ una cosa contraria al rispetto della persona oltre che della comunità».
Altro tema: l’energia. Prospettive?
«Il premier Draghi e i ministri Cingolani e Giovannini hanno più volte declinato i passi concreti per costruire alternative. Ci vorrà un po’ di tempo ma credo che l'orizzonte del 2023/24 sia ragionevole. Per un’azienda può sembrare lunghissimo, ma portare un Pese a sdoganarsi da una dipendenza da Est credo sia un risultato eccezionale».
Sanciamo la fine anche della Cina “fabbrica del mondo”?
«Il presupposto delle delocalizzazioni, nel nostro caso soprattutto a Est, si basava sul basso costo del lavoro. Oggi possiamo pensare al reshoring perché l’innovazione tecnologica colma il gap sul costo del lavoro, perché la qualità delle nostre produzioni è maggiore, la vicinanza ai mercati di sbocco è strategica. Purché l’Europa vigili».
In che senso?
«Serve una legislazione che scoraggi il dumping sociale».
Parliamo di sostenibilità sociale.
«Certo. Molte delle nostre imprese ci sono su questo, ma serve, oltre all’impegno dei singoli anche quello dei governi».
Tema banche. Le Popolari in Fvg e Veneto sono scomparse, oggi CiviBank va verso Sparkasse, FriulAdria in Agricole. Inevitabile?
«Il fenomeno delle aggregazioni è inevitabile e ineludibile quanto la necessità di maggior controllo e di investimenti nella digitalizzazione.La sfida è trovare un modello che concili la vicinanza al territorio e le economie di scala. Il giudizio, ovviamente, va ai posteri».
Riproduzione riservata © il Nord Est