Conegliano e Valdobbiadene, tentazione di togliere il nome Prosecco

VALDOBBIADENE. Un euro e 95 centesimi. Tanto costava una bottiglia di Prosecco Doc sugli scaffali di Esselunga, la settimana scorsa, a Milano. «Non vogliamo fare la stessa fine», mettono le mani avanti i produttori del “Conegliano Valdobbiadene Docg”, che oggi vendono una bottiglia a 7 euro e che vorrebbero lievitare il prezzo di uno o due euro, migliorando ovviamente la qualità. «Produciamo 92 milioni di bottiglie, 10 anni fa eravamo a 60 milioni. Ci confondono sempre di più col generico Doc e, quindi perdiamo in valore – riflette Isidoro Rebuli, produttore, ristoratore, presidente della Strada del Vino bianco, 200 soci – Dobbiamo fare selezione, ritornare ai livelli di una volta, identificarci col territorio, quindi via il nome Prosecco, e allora magari potremo anche farci pagare di più».
Tanti a Valdobbiadene e sulle Rive la pensano come lui. La Denominazione, nella sua maggioranza, ritiene però troppo semplicistica la soluzione del colpo di spugna al nome Prosecco. L’anno scorso il “Consorzio Docg” ha venduto più di 92 milioni di bottiglie, totalizzando un fatturato di 525 milioni. Quest’anno, nonostante la pandemia, la previsione è di superare, seppur di poco, i 91 milioni di bottiglie, quindi di fatturare intorno ai 520 milioni. Minima la differenza. «E questo perché – spiega il presidente del Consorzio Innocente Nardi – abbiamo fatto scelte coraggiose per garantire politiche di valore ed eliminare logiche di speculazione. Lavoriamo per creare una identità culturale definita per il nostro vino ed il nostro territorio, basata su valori come il senso di comunità, la vocazione, la bellezza e il rispetto del territorio».
Tutto ok, ma i valdobbiadenesi osservano che il valore aggiunto deve tradursi in risultato economico per chi fatica di più, come i piccoli produttori delle rive, quelli della viticoltura eroica, dove lavorare un ettaro costa tra i 600 ed i 700 euro l’anno, quindi più del triplo che in pianura. La differenza, per alcune case vinicole, deve arrivare da una maggiore valorizzazione dell’identità, da un brand più specifico, territoriale. Col Vetoraz, da tre anni ormai, qualifica in etichetta il proprio prodotto solo come “Valdobbiadene Docg”, altre cantine si concedono il doppio nome, “Conegliano Valdobbiadene Docg”. Da una dozzina d’anni la Mostra di San Pietro di Barbozza è la vetrina del Cartizze e del Valdobbiadene Docg, quella di Col San Martino ha cambiato titolazione, battezzandosi “Valdobbiadene Docg”. La Confraternita… di Valdobbiadene, appunto, ha cambiato nome anch’essa. E ha inviato un’istanza a 2.640 operatori della filiera Docg per capire se avvertono l’esigenza di un percorso autonomo, fuori dal sistema Prosecco, «perché stiamo verificando la perdita di percezione, da parte dei consumatori, delle distinzioni tra le provenienze».
Il Consorzio Docg affronterà domani una delicata seduta del consiglio di amministrazione per decidere come e quando convocare le elezioni per la nuova governance, alla luce del recente parere di due giuristi sulla rappresentanza dei vari soggetti interni, che marginalizzerebbe di fatto la stragrande maggioranza dei soci, quelli appunto delle cooperative. Le fibrillazioni sembrano andare ben oltre il nome. Ma, proprio in questo caso, il nome è sostanza. Il Disciplinare 2009 consente la varietà dei nomi. Dunque, si può procedere. Ma, dice Nardi, non obbligare. Secondo Rebuli e chi la pensa come lui è da qui, invece, che si deve passare. —
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