Da Ros (Confindustria): «Serve un piano d’emergenza che riduca gli impatti della crisi energetica su famiglie e imprese»

Katia Da Ros, vicepresidente di Confindustria con delega alla sostenibilità parla della transizione energetica delle imprese, che in Italia è in fase molto avanzata, con un occhio rivolto alla congiuntura, alla fiammata delle commodities energetiche e al rischio di una possibile riduzione dei flussi di gas dalla Russia nei prossimi mesi. «Ci preoccupa molto per il rischio di eventuali interruzioni».

TREVISO. Indipendenza, autosufficienza, investimenti. Sono le tre parole chiave che Katia Da Ros, trevigiana, vicepresidente di Confindustria con delega alla sostenibilità, pronuncia con più convinzione.

Vicepresidente Da Ros, dopo la pandemia abbiamo assistito a una grande effervescenza produttiva che nonostante sia stata messa in parte in difficoltà dallo shortage ha comunque retto bene. La speculazione prima e l’inasprimento del conflitto ucraino poi hanno portato alla ribalta problemi legati all’approvvigionamento di gas e un suo conseguente e drammatico aumento in termini di costo. Quale è la situazione per il mondo dell’industria?

«Negli ultimi due anni è stata la manifattura che ha tenuto in piedi il Paese. Nella prima settimana di luglio il prezzo italiano dell’elettricità è aumentato di otto volte rispetto a gennaio 2021. Inoltre, la possibile riduzione dei flussi di gas dalla Russia nei prossimi mesi ci preoccupa molto per il rischio di eventuali interruzioni. Dal nostro punto di vista serve trovare un equilibrio tra le esigenze di famiglie e imprese e dotarsi di un piano di emergenza che minimizzi gli impatti sulle attività produttive».

In primo piano anche per le industrie energivore c’è il tentativo di aumentare il peso delle energie alternative e la necessità di ripensare i processi industriali in termini di risparmio e quindi di aumento della sostenibilità.

«Le nostre imprese sono profondamente impegnate in un percorso nel quale la crescita è possibile se ruota attorno al valore della sostenibilità, intesa nelle sue tre dimensioni: economica, sociale e ambientale. Le imprese stanno facendo molto bene sui fronti dell’economia circolare e dell’efficientamento energetico dei processi: secondo gli indici di efficienza della Commissione Europea l’Italia è tra i primi posti nella classifica Ue. Nel decennio 2005-2015 l’Italia ha ridotto le emissioni di CO2 di circa il 20% ed è ai primi posti nel ranking dei sistemi manifatturieri mondiali per il minor impatto ambientale (fa meglio, di poco, solo la Germania). Questi dati confermano che le imprese stanno diffusamente investendo per concorrere agli obiettivi di decarbonizzazione e di inclusione sociale che sono alla base delle politiche europee e internazionali di transizione».

In che modo secondo lei comparti energivori come carta e siderurgia, per esempio, potrebbero essere in grado di mutare il proprio mix energetico?

«Il processo di decarbonizzazione è ancora più complesso per i settori cosiddetti Hard To Abate, dove l’energia costituisce una delle principali voci di costo di produzione, seconda soltanto al costo delle materie prime. In questi settori, sarà necessario migliorare la maturità tecnologica e la disponibilità delle fonti rinnovabili, diminuire i costi e favorire l’accesso come infrastrutture. Sarà, pertanto, necessario un trade-off per definire la combinazione delle soluzioni tecnologiche e dei vettori energetici che con maggiore efficacia saranno più idonei alla decarbonizzazione. Per quanto riguarda l’industria della carta, che è una delle componenti più importanti della bio-economia, le emissioni di CO2, dirette e indirette, hanno conosciuto nell’ultimo decennio una costante riduzione e i consumi energetici un progressivo efficientamento. Nell’industria dell’acciaio, oltre il 35% degli investimenti delle aziende è rivolto al miglioramento delle performance ambientali, della salute delle persone e della sicurezza sul lavoro. Nel 2020 le emissioni dirette di CO2 sono diminuite del 21% rispetto al 2019».

Assistiamo ad un proliferare di bilanci di sostenibilità, molte imprese puntano su questi aspetti non solo per dare una immagine positiva (e finanziabile) di sé ma anche perché le norme impongono un reale impegno onde evitare assorbimento di margini. Cosa possono fare di più e meglio le aziende?

«Molti dei report di sostenibilità delle nostre associazioni ci consegnano uno spaccato estremamente virtuoso. Faccio solo qualche esempio: l’industria chimica ha ridotto le emissioni di gas serra del 62% rispetto al 1990 e migliorato l’efficienza energetica del 46% rispetto al 2000, e sono già in linea con gli obiettivi che l’Unione europea si è posta al 2030. Il nostro sistema produttivo garantisce già performance elevate in relazione ai principali driver di sostenibilità ambientale. La carenza di materie prime, infatti, ha spinto le nostre imprese a fare dell’efficienza e della circolarità delle risorse una caratteristica imprescindibile».

E quali sono gli interventi non più rimandabili per aiutare questa trasformazione sostenibile?

«Lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia è essenziale per traguardare gli obiettivi di sostenibilità, ma perché ciò avvenga dobbiamo fare in modo che queste tecnologie vengano implementate direttamente nel nostro Paese e dalla nostra industria con filiere endogene. Essenziali possono essere misure agevolative ad hoc per importanti progetti di interesse nazionale. Trovare il modo di promuovere iniziative fin dalla prima industrializzazione, infatti, non solo ci renderebbe più competitivi e performanti, ma ci aiuterebbe anche in quel percorso di autosufficienza e indipendenza».

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