De Felice: «L’Italia ancora in pole in Europa per la crescita. La nuova spinta può arrivare dalle imprese»

Un Nord Est che dal punto di vista economico fa ancora da lepre ma che, allo stesso tempo, sconta qualche incertezza. E ancora, il ruolo cruciale degli investimenti, linfa vitale di un sistema dove la manifattura conta ancora moltissimo.
Sono questi alcuni degli elementi che emergono da una ricerca elaborata dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo che verrà presentata al Festival Città Impresa, che si apre domani a Vicenza. Il punto di partenza è l’atteso allentamento dei tassi d’interesse da parte della Bce. «Il mercato sconta ora un’aspettativa, molto ragionevole, di un taglio di 25 punti base a giugno e di altri 50 entro fine anno. Nel complesso ci aspettiamo che, salvo sorprese, nel 2025 la banca centrale riduca i tassi di altri 75 punti, con un punto di arrivo al 2,50%», dice Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo.
Come arriva l’economia a questa svolta?
«In condizioni diverse sulle due sponde dell’Atlantico. Gli aumenti dei tassi degli anni passati non hanno prodotto una recessione negli Stati Uniti, che hanno reagito con una politica di bilancio molto audace che ha fatto aumentare del 18% il rapporto fra debito pubblico e Pil. L’Europa da questo punto di vista ha potuto fare molto meno per evitare il rallentamento dell’economia».
La ricerca mostra che tra il 2022 e il 2024 la crescita cumulata del Pil sarà in Italia del 5,7%, contro il 4,3% dell’area euro e progressi inferiori in Francia e Germania. Quali le ragioni di un andamento così favorevole?
«Gli investimenti realizzati dalle imprese. La svolta inizia nel 2016, con le misure legate a Industria 4.0, che hanno permesso alle imprese di invertire la rotta negativa degli investimenti che andava avanti dal 2008. Successivamente, c’è stata un’ulteriore accelerazione, che è diventata molto evidente dopo la pandemia, quando è entrato in gioco il bonus del 110% per le ristrutturazioni edilizie».
Due voci molti diverse fra loro, anche in termini di prospettive. Hanno pesato più gli investimenti o il 110%?
«I primi hanno contributo per circa un terzo alla crescita degli investimenti, il settore delle costruzioni per circa due terzi. Vale però la pena osservare che il piano Industria 4.0 ha aumentato stabilmente il potenziale di crescita delle imprese, con effetti positivi non solo nell’immediato ma anche negli anni successivi. Una nostra analisi focalizzata sul Nord Est fornisce risultati molto evidenti. Nel 2022 il valore aggiunto delle imprese che li avevano realizzati ha superato i 74 mila euro per addetto, 14 mila euro in più rispetto alle imprese che invece non ne avevano effettuati. Nel 2019 il gap era più basso, circa 11.900 euro. Questo significa che anche con il Covid di mezzo le imprese più capaci hanno continuato ad accelerare».
E ora quali sono le vostre aspettative?
«Ci sono alcuni fattori che possono dare un contributo importante. C’è l’enorme opportunità offerta dai fondi del Pnrr, con circa 60 miliardi ancora da spendere su un totale di 100 già ricevuti. Se verranno rispettati gli obiettivi, la spinta sarà significativa. L’altro aspetto riguarda gli incentivi del piano Transizione 5.0 per gli investimenti nel digitale e green. La riduzione dei consumi energetici, l’introduzione di tecnologie, l’acquisto di macchinari sono gli ambiti nei quali - dicono le nostre indagini - le imprese si preparano a investire maggiormente, sia in Veneto che in Friuli Venezia Giulia. In generale la Transizione 5.0 può vale per l’Italia circa 20 miliardi di investimenti tra il 2024 e il 2026, lo 0,8% del Pil».
Tanto o poco?
«È un valore significativo, se considera che la nostra previsione è per una crescita del Pil italiano dello 0,7% quest’anno e dell’1,2% il prossimo».
Che cosa devono fare gli imprenditori per cogliere questa nuova occasione?
«Investire, investire, investire. Le nostre indagini mostrano che gli imprenditori nel Nord Est hanno colto molto bene i rischi connessi all’aumento dei costi dell’energia e che sono pronti a reagire».
Dalla ricerca emerge che nel 2000 il Pil pro capite in Veneto era del 39% superiore a quello dei 27 Paesi dell’Unione Europea, in Fvg del 32%. Questo vantaggio oggi si è ridotto rispettivamente al 9,3% e al 6,2%. Il Nord Est riveste ancora il ruolo di lepre dell’economia italiana ed europea, oppure l’ha perso?
«Veneto e Friuli Venezia Giulia costituiscono sempre un’area di forte dinamismo imprenditoriale, di elevata vocazione all’export e di propulsione della crescita italiana. Siamo però in una fase di incertezza, con alcune regioni che nel 2023 hanno dimostrato maggiore vivacità come ad esempio l’Emilia Romagna».
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