E la Romania non è più Far West «Ma è impossibile stare solo in Italia»

TREVISO. Non è una storia da “c’era una volta”, con i capitoli diventati ormai leggendari sulla prima assemblea all’estero di Unindustria Treviso (2001), la tragedia del volo Banat Air da Verona (1995), il ritornello di “Timisoara ottava provincia veneta”. Quella dei rapporti tra imprese nordestine e Romania è un racconto con i verbi al presente, senza tracce di reshoring, un business che interessa 9.424 aziende venete e muove, a livello nazionale, 14,39 miliardi di euro di scambi bilaterali l’anno (dato al 30 novembre 2018). Negli anni Novanta le imprese nordestine iniziarono ad “annusare” la Romania alla ricerca di manodopera. Oggi lo fanno ancora. Più di prima. E si sono allargate ai Paesi limitrofi.
Gli inizi
Storico “sherpa” delle imprese del Nord nella marcia verso la Romania è Luca Serena, all’epoca Latercementi di Castelfranco, oggi presidente di Confindustria Est Europa. «Nel 1998 erano i tempi della famosa svalutazione competitiva, qui avevamo le imprese che volavano - ricorda Serena - e poi le aziende venete erano già orientate all’export, solo che la disoccupazione era ai minimi e non si trovava manodopera. Non riuscivano a evadere gli ordini che arrivavano. Per assumere gli extracomunitari c’erano le quote da rispettare, e così si pensò di portare alcune lavorazioni all’estero. Ma dove?». Serena prese la borsa e un aereo per l’Est Europa, si fermò in Romania per una serie di ragioni: la barriera linguistica più bassa che altrove, il costo del lavoro (allora) irrisorio, la distanza, le fabbriche di Timisoara che cucivano le divise dell’esercito russo. Oggi si chiamerebbe know-how: competenze nel settore tessile che facevano gola a tante imprese del Nord. E infatti. I pionieri dello sbarco in Romania - lavorazioni di un singolo segmento di produzione in conto terzi - sono nomi quali Zoppas, Doimo, Maschio Gaspardo, Geox, Benetton. Che con gli anni non tornano in Italia, anzi, usano la Romania come trampolino di lancio, e non a caso colossi come il Gruppo Sol-Fumagalli (Varese) è presente in otto su dieci Paesi seguiti da Confindustria Est Europa.
Gli anni duemila
La prima sede di Unindustria Treviso in Romania nel 1998 è un seme che germoglia in fretta. È un ufficio di consulenza: dalla normativa ai problemi con i visti, dai contatti con le aziende locali alla ricerca delle sedi su cui investire. Nel 2002 nasce Fundatia Sistema Italia Romania, fondazione senza scopi di lucro con 24 soci di cui 20 associazioni italiane di Confindustria. Ci sono - tra le altre - Treviso, Vicenza, Padova e Belluno, fondazione Cuoa Vicenza, Finest, Banca Intesa, Veneto Banca. Il 2001 è l’anno della storica assemblea Treviso-Timisoara. Nel 2010 nasce Confindustria Est Europa, che si allarga a Bulgaria, Albania, Serbia, Montenegro, Macedonia, Ucraina, Bielorussia, Bosnia-Herzegovina.
I rapporti oggi
Le imprese italiane (cioè con almeno il 51% di capitale in Italia) registrate in Romania sono oltre 47 mila. Crescono al ritmo di duemila l’anno, di queste almeno trecento sono venete. Circa il 20%: erano il 50% di tutte le italiane fino al 2005, Timisoara non è più l’ottava provincia veneta solo perché è “annacquata” da altre regioni. L’Est Europa è una macro area da 100 milioni di abitanti e mille miliardi di Pil, con l’avvicinamento all’Unione Europea sono tutti cresciuti molto, dalla Romania è più facile spostarsi in altri Paesi con cui sussistono accordi commerciali, di libero scambio, facilitazioni per l’avviamento di una nuova sede. Tornando al reshoring: nessuna traccia. «In una logica globalizzata, che tocchiamo tutti i giorni con mano, rimaniamo in Italia producendo tutto qui?» si chiede Serena, «oggi serve produrre un pezzo in Italia, uno in Francia, un componente in Germania, e magari assemblarlo in Romania e distribuirlo in Cina. Tutto ciò è possibile se ci si organizza con una logica di presidio dei mercati».
Il futuro
Secondo il numero uno di Confindustria Est Europa questo trend continuerà. L’Italia non è Paese di materie prime, la sua forza è la manifattura ma il mercato interno è troppo piccolo rispetto alla scala sui cui si pesa il commercio globale oggi. «L’imprenditore se potesse rimarrebbe fermo a Padova, ma sa di non poterlo fare» conclude Serena, «e smettiamola di raccontarci che chi delocalizza impoverisce il territorio. È dimostrato che in questo modo non solo chi delocalizza aumenta la produzione della casa madre, ma anzi migliora la qualità della propria azienda. Di chi va all’estero dovremmo essere orgogliosi. Il problema è un altro: preoccupiamoci di far venire in Italia aziende straniere».
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