E Timisoara diventò l'ottava provincia veneta

Negli anni Novanta la madre di tutte le delocalizzazioni fu la Romania. Non si trovava manodopera e le imprese rimediarono così. Si crearono capannoni modello Nordest. E i veneti furono i pionieri dello sviluppo

Le stalle abbandonate diventavano capannoni, copia poco conforme di quelli del Nordest, allora strapieni. Magazzini, baracche: tutto poteva essere riconvertito, in laboratori, officine. E gli ex kombinat sovietici si convertivano a nuove filiere. Era lavoro per tutti, in una Romania stremata: con gli orfanotrofi e i bimbi malati di Aids, con i ragazzi che vivevano nelle fogne di Bucarest, arrivavano gli italiani. Duemila anni dopo i Romani. Erano trevisani e veneti, portavano scarpe e scarponi, vestiti e tessuti. Novelli Re Magi ma molto più interessati, in un paese ancora stremato dal post Ceausescu.
Una corsa all’oro, fatte le debite proporzioni, un secolo dopo. A Est. Culminata nel 2001 – son passati 15 anni esatti – in un evento celebrativo senza precedenti: l’assemblea annuale di Unindustria Treviso convocata nel teatro di Timisoara, «neocapitale» della Romania veneta e nordestina, oggi ancora più italiana. C’erano i ministri (anche Enrico Letta, futuro premier) e i sottosegretari, due ministri rumeni, il gotha dell’imprenditoria nordestina, manifatturiera in primis. Zoppas, poi Gaio, Bernardi, Gionco, Doimo, Antiga. A celebrare una saga, a sancire che Timisoara era l’ottava provincia del Veneto. Ben 350 imprenditori, guidati dal presidente Sergio Bellato e dal direttore Cesare Bernini, volarono da Treviso su due charter: primi di centinaia di aerei che oggi fanno la spola con le città rumene, gran parte low cost. Gli antenati furono – ahinoi – gli Antonov dell’impero sovietico crollato, come quello precipitato a Verona nel 1995, nella neve: 49 vittime. Era il volo di chi apriva la corsa, c’erano imprenditori e artigiani, commercialisti e commercianti.


Pionieri
I primi a sbarcare in terra rumena furono 30-40 imprenditori, tutti trevigiani. I più coraggiosi, o i più lungimiranti. L’apripista era stato Luca Serena, imprenditore della Latercementi di Castelfranco (poi ceduta), consigliere per l’internazionalizzazione nella giunta Tognana di Unindustria Treviso: «Avevo 32 anni, era il 1994 e il marco comandava da Istanbul a Vladivostok, la Germania comperava da noi e vendeva ovunque», racconta, «come potevamo entrare anche noi nel ballo? Avevamo gli ordini, c’era piena occupazione, ma non si trovava manodopera: il Far East cominciava a farci concorrenza, non potevamo competere se si consegnava in sei mesi».
Tognana, allora presidente, puntò a Est: «Fu lungimirante: girai a lungo tutti i paesi, facevo sondaggi, imparavo, mi guardavo attorno. Un’opzione era provare a importare manodopera, ma c’era il problema dello sradicamento, senza contare i risvolti sindacali». E spuntò la Romania: «Francesi e tedeschi c’erano già: i costi erano davvero bassissimi, 100 euro oggi al mese per operaio, tasse comprese. Al ritorno relazionai a Unindustria: c’erano altri tre fattori determinanti. La lingua, essendo un paese neolatino, presentava minori ostacoli rispetto alle lingue slave; la predisposizione dei kombinat a concentrare le diverse aziende delle nostre filiere; il livello degli operai rumeni, non si partiva da zero, anzi».


Sportello di consulenza
Nel 1995 apriva in Romania lo sportello di consulenza di Unindustria Treviso. «Nessuno ci credeva, ma la voce girò: fummo sommersi, ci chiamava mezzo Veneto». I dati di fine secolo? L’inflazione dal 154% al 30% fra 1997 e 2001, Pil da -6,6% al + 4,4%, disoccupazione da 7% al quasi fisiologico 3%. «Premesse all’ingresso nella Ue della Romania, che sembrava impossibile», continua Serena, «il nostro contributo fu decisivo. Ancora oggi, fra 2014 e 2015, il Pil cresce del 2,5%, ora corrono l’automotive (molto ex indotto Fiat) e le energie rinnovabili». Serena è stato presidente di Unindustria Romania fino a pochi anni fa. L’assemblea 2001 resta il simbolo della delocalizzazione, il “trasloco” del Nordest, oggi con altri confini. Soluzione traumatica – solo i maghi lo fanno senza sforzi – per restare competitivi e glocal dopo il boom: trasferire le materie e la produzione a manodopera a costo quasi zero, sintonizzata a know how e talento italiano, flessibilità nordestina e genio imprenditoriale. Dopo decenni di dittatura e di cultura dello stato-partito comunista.


Eldorado a portata di aereo
E poi burocrazia leggera – atavico sogno di chi fa impresa – incentivi fiscali, vicinanza geografica, anche se da supportare con servizi, infrastrutture e collegamenti (e ci hanno pensato i fondi Ue). Romania come un Eldorado a portata di aereo e auto, mentre testa e cuore delle aziende restavano qui, in Italia. I sindacati, italiani e europei, insorsero contro lo «sfruttamento», diedero battaglia, paventando le ripercussioni che la crisi avrebbe aperto più tardi qui in casa nostra.
Cosa resta, 15 anni dopo? La rivoluzione è compiuta, il Paese è entrato in Europa: modernizzazione spinta, al dinamismo interno si sommano le sotterranee rimesse degli immigrati. Oggi il salario di un operaio va dai 450 ai 650 dollari. E le aziende italiane o miste – non più di 150 dopo il ’95, 9.500 nel 2001, di cui 100 solo dalla Marca – sono oggi oltre 38 mila. Molta elettronica, sistema casa. Certo, qualcuno se n’è andato verso altri mercati. Il Nordest conserva il primato storico, non è più dominante. Ci sono ricevute di ritorno, come le badanti. E le conseguenze, anche private: quante famiglie italiane distrutte dalla concorrenza in loco, la concorrenza (sleale?) delle competitor di Romania è stata micidiale, creando prima la doppia famiglia – la seconda era più vicina all’azienda – poi un mare di divorzi. Anche il cuore delocalizza.
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