Labomar: «Puntiamo al raddoppio crescendo in modo sano»
Walter Bertin racconta le strategie della sua Labomar, che un anno fa lasciava Piazza Affari
Esattamente un anno fa la Labomar lasciava la Borsa, con un’Opa sulle azioni diffuse sul mercato effettuata dal nuovo socio di minoranza, il fondo Charterhouse, che oggi ne detiene il 28% del capitale.
La quota di maggioranza rimane saldamente nelle mani di Walter Bertin, l’imprenditore che ha letteralmente costruito da zero l’azienda, partendo venticinque anni fa dalla passione per i primissimi integratori alimentari che aveva iniziato a sperimentare nel retro della farmacia di famiglia, a Istrana, sulla regionale fra Treviso e Castelfranco Veneto.
Nel suo ufficio, poco lontano da lì, ci sono quaranta vetrine che permettono al visitatore di prendere contatto con alcune delle tecnologie che Labomar ha messo a punto, e che l’hanno resa un fidato fornitore dei primari gruppi farmaceutici per i prodotti della nutraceutica, ma anche per farmaci, dispositivi farmaceutici, cosmetici.
Alla domanda su tre tecnologie che vanno ricordate, Bertin cita i fermenti lattici condensati in dosi di poche gocce, in modo che i bambini li ingeriscano facilmente senza scappare, il ferro legato alle proteine del latte per garantire un miglior assorbimento riducendo gli effetti collaterali, le membrane gelatinose arricchite di eccipienti che favoriscono l’assorbimento nello stomaco, ad esempio, dei prodotti per il colesterolo.
Bertin, perché la decisione di lasciare la Borsa, meno di tre anni dopo la quotazione?
«Per lo stesso motivo per cui abbiamo fatto tutte le nostre scelte finanziarie in passato, come far entrare il Fondo Italiano d’Investimento nel 2012 e quotarci nel 2020: volevamo continuare a crescere. Eravamo arrivati a un punto in cui ci serviva più flessibilità, velocità, accelerazione. Farlo con un unico socio di minoranza come Charterhouse, che abbiamo scelto attentamente, in quel momento per noi era più facile».
La Borsa l’ha delusa?
«Tutt’altro. È stata una bellissima esperienza, che ci ha permesso di farci apprezzare da tanti investitori. Però con loro ero stato chiaro fin dall’inizio: i soldi che portavamo a casa li avremmo sempre reinvestiti. E all’inizio del 2023, se avessi collocato una parte del capitale per raccogliere nuove risorse, lo avremmo fatto poco sopra i valori del collocamento. Avremmo portato a casa meno dei 25 milioni dell’Ipo o saremmo stati costretti a diluire troppo la nostra quota».
Cosa avete fatto in questi dodici mesi?
«Abbiamo investito molto su noi stessi e fatto due acquisizioni. La prima è uno spin off dell’Università di Verona, la Sphera Encapsulation, specializzata in tecnologie applicate all’alimentazione funzionale, alla nutraceutica e all’agro-chimica. Questo è un settore che mi ha molto colpito, dopo aver visto l’effetto sulla foglia di una pianta dei fertilizzanti inseriti in un’unica goccia. Abbiamo preso il 25%, con la possibilità di salire al 100».
Perché non tutto subito?
«Per diversi motivi. In primo luogo, volevamo trattenere con noi le ricercatrici che l’anno fondata, Martina Vakarelova e Francesca Zanoni. Abbiamo mostrato loro quello che facciamo, in modo che possano farsi forza con il nostro aiuto, ma poi vorrei che proseguissero lo sviluppo nel modo più autonomo possibile. Poi, avremmo dato loro troppo poco: se crescerà come pensiamo possa fare, l’azienda è destinata a valere molto di più».
Poi avete acquisito la Laboratorios Entema di Barcellona, una piccola Labomar.
«Mi ha colpito come Marti Ayats gestisce la produzione: in fabbrica non c’è un pezzo di carta. Abbiamo un importante sviluppo da fare, perché c’è un secondo stabilimento da realizzare. Ma ci permetterà di rafforzare la produzione in Europa, e ci darà un forte impulso in Sud America, dove gli spagnoli lavorano bene anche per la maggiore affinità delle rispettive regolamentazioni».
La crisi dei consumi penalizza gli integratori?
«Sì, certamente. Veniamo da una situazione particolare: tra il 2022 e il 2023 il nostro settore era rimasto letteralmente a secco di materie prime. Abbiamo dovuto caricare i magazzini per non farci trovare scoperti di fronte agli ordini dei clienti, che prima hanno fatto scorta a loro volta, poi si sono fermati. Ci vorrà un po’ per metterci alle spalle tutto questo».
L’anno scorso avete fatturato 103 milioni, con un margine operativo lordo di 19 milioni. Quest’anno?
«È un anno di passaggio. Potremo fare un po’ meglio in alcune aree, meno in altre, per cui nel complesso non saremo troppo lontani da lì. Diciamo che questo è il momento di riorganizzare i processi».
Che investimenti state realizzando?
«Abbiamo installato una nuova linea completamente robotizzata per potenziare la produzione di sciroppi. È in grado di produrre 25 milioni di flaconi l’anno, aumentando di parecchio l’attuale capacità. Poi stiamo ultimando il nuovo centro logistico e stiamo ragionando sulla possibilità di riorganizzare i nostri spazi qui, dove siamo distribuiti in troppi edifici: ci piacerebbe poter lavorare tutti insieme».
Farete altre acquisizioni?
«Vorremmo rafforzarci negli integratori alimentari in Canada, dove siamo dal 2019. L’azienda, dopo gli anni difficili del Covid, sta andando molto bene. Abbiamo ristrutturato la parte produttiva e siamo riusciti a creare un nuovo team di dirigenti. Ora vorremmo potenziare le strutture di ricerca e sviluppo sul mercato locale, che presenta caratteristiche particolari. Si figuri che produciamo una crema solare per cani dalla pelle particolarmente delicata e che sono a rischio di tumori solari. A differenza dell’Italia, in Nord America la crema solare è un farmaco».
E in Europa?
«Stiamo aspettando le occasioni giuste, vedremo».
I fondi hanno un’ottica di investimento a 4-5 anni. Dove vede Labomar allora?
«Abbiamo una nostra visione strategica che ha orizzonti temporali più flessibili, e che però dipenderà anche dalle occasioni di cui le ho parlato. Le posso dire che alcuni concorrenti sono molto più grandi di noi e che, in linea di principio, se un fondo di private equity mira in genere ad un forte accrescimento di valore, il nostro piano industriale ha l’ambizione di raddoppiare le dimensioni del gruppo. Ma d’altro canto le assicuro che non faremo acquisizioni solo per obbiettivi di natura finanziaria di breve termine: vogliamo crescere in maniera industrialmente mirata. Siamo una società benefit, certificata B corp, e per me questo ha un significato preciso: voglio vedere i miei collaboratori sorridere, perché capiscono che stiamo lavorando per il futuro dell’azienda».
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