Unox, Franzolin il giapponese ora sbarca in America
Le fortune di tutti noi nascono da piccole e grandi scelte che, a distanza di anni, sembrano avere poco a che fare con gli effetti che ne sono derivati. Una sorta di “butterfly effect” (Edward Lorenz, 1972) che ha accompagnato Unox e il suo fondatore nella crescita da piccola startup specializzata in forni professionali ai 290 milioni di fatturato del 2023.
Protagonista di questa storia è Enrico Franzolin, nato il 29 agosto 1955 da una famiglia di agricoltori di Dolfina, piccolo centro tra Cavarzere e Chioggia. «La prima vera scelta della mia vita è avvenuta proprio subito dopo il diploma», ricorda l’imprenditore. «Mio padre mi guardò negli occhi e mi disse che aveva qualche soldo da parte ma che sarei stato io a decidere come usarli: o avrebbe acquistato alcuni nuovi terreni o avrebbe speso quei soldi per i miei studi. Io scelsi la facoltà di ingegneria chimica dell’Università di Padova. Mi laureai in 5 anni e con il massimo dei voti».
Dopo dieci anni da ingegnere, dapprima in Montedison e poi in una piccola impresa chimica qui in Veneto, fu la moglie Annalisa Randi - futura responsabile dell’evoluzione del brand Unox - a mettere Enrico di fronte ad una nuova scelta. «Annalisa iniziò a cercare per me, e insieme a me, un’azienda di cui diventare socio e mi diede l’opportunità di mollare una posizione comoda, ben retribuita e stabile per accettare una nuova sfida» racconta il presidente di Unox.
«Dopo sei anni di lavoro da direttore commerciale di una Pmi che stava crescendo a ritmi eccellenti mollai tutto e subentrai come socio al 50% di Antonio Bassan in Unox, una startup che produceva piccoli forni in un garage».
Così, nel 1990, la sua vita cambia di nuovo. «Quella fu una fase eroica» spiega l’imprenditore. «Se hai una startup devi sapere fare di tutto: dal magazzino al commerciale fino all’innovazione di prodotto. Per emergere devi offrire qualcosa in più dei tuoi competitor garantendo efficienza e stabilità. Per farlo lavoravamo come pazzi e, nel frattempo, progettavamo innovazioni strategiche per il nostro futuro, come la logica modulare e l’introduzione di nuove ventole per garantire una diffusione più omogenea del calore all’intero del forno».
Le cose negli anni sono molto cambiate ma un paio, in Unox, sono rimaste costanti: la propensione all’innovazione, a tutti i livelli, e il ruolo dell’export, rimasto stabilmente intorno al 90%. Due elementi che hanno garantito, fin dal principio, la crescita della piccola startup. «A fine anni Novanta abbiamo iniziato a proporre i nostri forni combinati, mettendo accanto alle ventole dei tubicini che vaporizzavano acqua così da permettere, alternativamente, una cottura a vapore o tradizionale», continua l’imprenditore.
Alle radici della flessibilità
«Ma mentre gli ordini crescevano e la gamma di prodotto diventava più ampia ci trovammo di fronte ad una nuova sfida: producevamo secondo il modello tradizionale, per magazzino. Avevamo tempi di consegna a 90 giorni perché eravamo costretti a chiudere lotti importanti per stare nei costi. Questo modello però rallentava i tempi di consegna e appesantiva tutti i processi».
Fu allora che Unox introdusse, tra le prime in Italia, l’organizzazione della Toyota, la cosiddetta Lean production. «Introdurre la Lean a tutti i livelli è stato un’ottima idea» dice il presidente di Unox. «Ma questo percorso ha imposto una revisione strutturale dei processi produttivi e investimenti importanti. In questo senso la nostra propensione all’export ci ha aiutato. Saldavamo i fornitori a 90 giorni ma gli importatori ci pagavano cash. La cassa generata ci ha permesso di autofinanziare un percorso evolutivo fondamentale».
Proprio per garantire la flessibilità produttiva necessaria al modello Lean, Unox inizia a internalizzare la catena di fornitura già alla fine degli anni Novanta, fondando una serie di imprese controllate: Metex che realizza le parti meccaniche dei forni, poi Velex per la parte elettronica e poi ancora Detix per i detersivi e Mabix che fa le parti plastiche. Poi ancora l’acquisizione di S3 per lo stampaggio della lamiera.
Un percorso che ha premiato il made in Italy produttivo e rafforzato il know how di Unox in tutte le fasi della filiera. Questo in un periodo in cui buona parte del sistema industriale locale guardava alla delocalizzazione per abbattere i costi. Ma a dare nuova spinta all’evoluzione di Unox, oramai un’azienda strutturata (acquisita per intero dall’imprenditore nel 2005), è stata anche un’altra coppia di ingegneri: Chiara Franzolin, sua figlia, e Nicola Michelon, attuale Ad del gruppo e marito di Chiara. La prima ha seguito i processi di efficienza Lean del gruppo, il secondo ha sviluppato, durante tutto il decennio scorso, una rete commerciale autonoma e globale coronata dagli Unox Experience Center.
Pronti a produrre negli Usa
«Insieme abbiamo creato un sistema efficiente, flessibile e solido» aggiunge Franzolin «che ha la forza di attirare menti brillanti in tutti i campi dell’innovazione: Unox Open Factory, la nostra divisione di R&D, assorbe mediamente oltre il 5% del nostro fatturato annuo e occupa ora quasi un centinaio di ingegneri chimici, dei materiali ma anche meccanici, dell’aerospazio, delle telecomunicazioni e così via. Un team che ci ha accompagnato nell’introduzione di tecnologie di frontiera come l’Iintelligenza artificiale, il machine learning e molto altro ancora. E se prima il costo medio di un nostro forno era pressoché al 100% legato alla meccanica, ora il software e l’hardware pesano circa per il 60%».
Nel 2019 l’azienda fatturava 134 milioni, nel 2023 ha superato i 290 milioni in 110 paesi. Gli ordinativi, nel primo trimestre 2024, segnano un ulteriore +27%. «Puntiamo al miliardo di euro di fatturato forse già entro il 2030» conclude l’imprenditore «e per farlo continuiamo a investire. Qui a Cadoneghe nascerà Unox City, un progetto da circa 100 milioni per una superficie di 90 mila metri quadri in cui sorgeranno strutture logistiche, produttive e un centro ricerche. Le nostre scelte e il nostro know how ci hanno fatto superare brillantemente il Covid, lo shortage di materie prime come pure le logiche di reshoring degli ultimi anni. Siamo un’azienda Made in Italy che controlla tutti i nodi della propria catena del valore, dal marketing globale alle vendite fino alla produzione vera e propria, e siamo pronti ad inaugurare a breve il nostro primo sito produttivo negli Stati Uniti». —
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