Ecco i settori che a Nordest rischiano un calo del Pil superiore alla media nazionale
L’ondata di piena del covid non ha risparmiato il Nordest d’Italia, cambiando in modo forse permanente il volto del mondo del lavoro. Tra nuove modalità organizzative come lo smartworking e interi settori che stanno pagando a caro prezzo la crisi, le prospettive per i lavoratori sono quanto mai incerte. “In Veneto già prima dello tsunami covid c’era una situazione di sofferenza: avevamo 30 tavoli aperti all’unità di crisi regionale. Era il sintomo di una ripresa che ci aveva illuso e che però si era fermata”, spiega Christian Ferrari, segretario generale della Cgil Veneto. “Poi è arrivata la pandemia: per Veneto Lavoro nei primi nove mesi dell’anno si sono persi 44.500 posti, che stante il blocco dei licenziamenti sono mancate assunzioni. Se contiamo anche i lavoratori non dipendenti e i parasubordinati il totale è di circa 50mila posti persi. A pagare il prezzo più alto sono stati gli stagionali del turismo, specie nelle province di Venezia e Verona”.
E la crisi non è ancora finita. “Nel primo semestre in Veneto c’è stato un crollo della produzione industriale mai visto, -22,4%. Da luglio ci sono stati segnali di recupero, ma si è trattato di un rimbalzo fisiologico post lockdown, non di una ripresa strutturale”. Secondo Ferrari “dopo un crollo del genere la situazione sarebbe drammatica anche se il virus fosse sotto controllo”.
E dato che non è così occorre in primis “contrastare la diffusione del virus, perché emergenza sanitaria ed economica sono legate. Poi bisogna preservare i posti di lavoro, anche attraverso la proroga degli ammortizzatori sociali. In caso contrario si scaricherebbe sul lavoro l’attuale fase di sofferenza economica”.
Secondo il sindacalista “rischiamo un avvitamento tra licenziamenti e chiusure di imprese, che comprometterebbe la capacità di ripartire. Ci sono settori in Veneto che rischiano un calo del Pil superiore alla media nazionale per la particolare specificità produttiva della nostra regione. La faticosa ripresa dopo la crisi precedente è stata possibile grazie a due propulsori: l’export e il turismo, entrambi colpiti al cuore dal covid. Ci vorrà tempo per tornare a vederli girare pienamente. Il modello di sviluppo del Veneto dovrà necessariamente essere diverso da quello che abbiamo lasciato il 21 febbraio”.
Anche nel Friuli Venezia Giulia la preoccupazione è grande. “Spero solo che la situazione migliori quando non ci saranno più gli ammortizzatori sociali”, sintetizza Graziano Tilatti, presidente regionale della Confartigianato, secondo cui “un quarto delle imprese artigiane del Friuli rischia di chiudere a fine anno. Il covid ha solo accelerato un processo già in atto: alcune realtà erano già in difficoltà, ad esempio per il passaggio generazionale. La situazione è più grave per le imprese che sono nella filiera delle commesse verso l’estero”.
Si tratta in gran parte di piccole realtà, per le quali anche soluzioni come il lavoro agile non sono praticabili, anzi: “Lo smartworking, applicato dalle aziende più grandi e strutturate, crea un danno all’economia di prossimità. Quello che manca ora è la fiducia”, osserva Tilatti. “Per guidare la ripresa deve ripartire la domanda interna, serve un volano per i consumi, la ristorazione e i servizi alla persona. In attesa che arrivi finalmente un vaccino”.
La data da tenere sotto controllo è l’inizio del 2021, quando dovrebbe terminare il blocco dei licenziamenti. “In quel momento vedremo quale sarà l’impatto occupazionale della crisi in termini numerici: a essere interessati saranno soprattutto settori come il turismo, il tessile, i servizi alla persona”, osserva Silvia Oliva, ricercatrice senior di Fondazione Nord Est.
“Con la fine della cassa integrazione si romperà un argine e avremo inevitabilmente effetti sul mercato del lavoro”. Per cercare di attutire il colpo “servono percorsi di formazione per riqualificare le persone verso i settori che offrono maggiori possibilità occupazionali, dando più spazio alle competenze digitali. Servono politiche attive, non solo supporti al reddito”.
Il tema più rilevante, però, è “come cambierà il lavoro. Alcuni fenomeni, come la digitalizzazione e l’automazione, verranno accelerati”, spiega la ricercatrice. Nei mesi scorsi “anche tra le imprese venete lo smartworking ha avuto una grande diffusione, abbastanza sorprendente perché lo stare a distanza è abbastanza lontano dal nostro modo di lavorare. Ma le imprese si sono velocemente attivate in questo senso: molte stavano già operando in questa direzione e hanno ampliato progetti esistenti per tutte le figure professionali per le quali è possibile, perché lo smartworking non si può applicare a tutte le professioni”.
Tra i vantaggi per le aziende c’è un aumento dell’efficienza in termini di costi e soprattutto “la possibilità di arruolare talenti che non si trovano fisicamente in zona, ovviando a uno dei problemi storici del nostro territorio ”. Per Oliva “durante il lockdown si è solo lavorato da casa: il vero smartworking richiede un cambiamento della mentalità manageriale, non più impostata sul controllo, ma sulla gestione del lavoro per obiettivi, con momenti di confronto. Gli staff delle aziende venete hanno saputo riorganizzarsi in modo rapido nell’emergenza; ma nel lungo periodo serve un cambiamento organizzativo e di cultura manageriale”.
“Se applichiamo al Veneto le metriche utilizzate nel resto d’Italia, gli addetti che usufruiscono dello smartworking sono passati dai 50mila di prima del covid a circa 800mila”, nota Ferrari.
“Tra gli aspetti positivi c’è la possibilità di mettere le nuove tecnologie al servizio delle persone; lo smartworking ha poi garantito la continuità lavorativa per diverse categorie che solo 15 anni fa sarebbero rimaste ferme durante il lockdown”.
Il rovescio della medaglia però esiste. “In molti casi si è trattato di mero trasferimento a casa del lavoro d’ufficio, e spesso è stata una scelta improvvisata, non pianificata in base a una strategia di innovazione”. Lo smartworking, sottolinea il sindacalista, “è stato governato unilateralmente dalle imprese: noi sentiamo l’esigenza di riportare questo tema in un ambito di contrattazione collettiva, in cui discutere di diritti come la disconnessione, gli strumenti di lavoro, la salute e la sicurezza e il giusto equilibrio tra presenza e lavoro in remoto, per evitare che si trasformi in una forma di cottimo in cui si perde il confine tra lavoro e vita privata”.
E per la professoressa Martina Gianecchini, referente scientifica del master in Human Resource Management della Cuoa Business School, “in questo periodo in cui si rinnovano dubbi e timori collegati alla recrudescenza del virus, le imprese hanno una certezza: lo smartworking è destinato a rimanere”. Quindi bisogna “definire quali attività possono essere svolte da remoto, identificando le competenze necessarie”.
Inoltre “è necessario integrare persone che operano in presenza e a distanza, definendo modalità di collaborazione, orari, stili di leadership. Infine si pone la sfida della misurazione della prestazione, che se da un lato spinge verso un monitoraggio quasi ossessivo delle attività, dall’altro pone al centro il tema della fiducia e dell’allineamento dei comportamenti basato su valori aziendali condivisi”.
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