Espatri: da necessità a scelta
di MARTINA GIANECCHINI*
I dati sulla fuga dei cervelli aprono domande non solo sulla capacità del nostro Paese di offrire opportunità ai giovani italiani ma anche sull’attrattività generale del nostro sistema economico per i lavoratori stranieri. La lettura di questo fenomeno come un’incapacità di trattenere i “nostri” giovani, appare infatti anacronistica in un contesto di mobilità internazionale dei lavoratori sempre crescente. Se infatti il desiderio di mobilità lavorativa degli italiani è piuttosto basso (secondo un’indagine condotta dalla Comunità europea nel 2010 solamente il 4% degli italiani ipotizzava di lavorare all’estero nel proprio futuro), questo scenario è in rapida evoluzione soprattutto tra le giovani generazioni: guardando infatti i dati del programma europeo per la mobilità studentesca Erasmus, l’Italia è il quarto Paese per numero di studenti che passano un periodo di studi all’estero.
Focalizzando l’attenzione a livello locale, un’indagine svolta alla fine del 2012 dall’Agenzia Regionale del Lavoro della Regione Friuli Venezia Giulia su un campione di oltre 500 ricercatori operanti nelle istituzioni formative e di ricerca della regione, mostrava come quasi la metà di loro avesse svolto un periodo di studio o di lavoro all’estero.
Questi dati suggeriscono una lettura alternativa del fenomeno della “fuga dei cervelli”, in cui la scelta di lavorare, almeno per un periodo, in un Paese diverso da quello d’origine non è dettata dalla necessità, ma è il frutto di un piano di sviluppo professionale in cui l’individuo coglie le opportunità ovunque esse si trovano.
Ma quando e come nasce negli individui la decisione di cercare lavoro all’estero?
Nel corso del 2013 ho svolto una ricerca su un campione laureati in Economia all’Università di Padova. L’indagine ha coinvolto circa 200 persone con un’esperienza lavorativa di oltre 5 anni, un terzo dei quali stava lavorando all’estero. L’obiettivo dell’indagine era quello di capire se e in che modo avere studiato in un Paese diverso dall’Italia, anche per brevi periodi, avesse spinto le persone a cercare lavoro all’estero. I risultati della ricerca hanno rilevato alcuni meccanismi interessanti. Innanzitutto studiare fuori dall’Italia non apre “automaticamente” le porte a una carriera internazionale: da un lato perché molto spesso tali esperienze formative non sono scelte in chiave di sviluppo professionale ma solamente per curiosità nei confronti di una cultura diversa dalla propria, dall’altro perché solo i periodi di studio medio-lunghi, di alcuni mesi, lasciano un segno sulle decisioni di carriera. In secondo luogo, la ricerca ha svelato un altro aspetto del modo in cui un’internazionalizzazione “precoce” spinge i giovani verso Paesi stranieri: il valore di un periodo di studio all’estero non risiede infatti, come spesso si crede, nell’incremento delle conoscenze linguistiche.
Quello che la maggior parte degli intervistati dichiara è piuttosto relativo all’acquisizione di una maggiore consapevolezza del proprio valore a livello internazionale. In altri termini, vivere per un periodo in contesti dove si incontrano persone provenienti da diverse culture consente ai giovani di acquisire più rapidamente coscienza delle proprie potenzialità e conseguentemente formulare scelte professionali più precise, che spesso includono anche la possibilità di candidarsi per posizioni in aziende e istituzioni non operanti in Italia.
La fuga dei cervelli comincia quindi da lontano: al sistema formativo e delle imprese, la sfida di trasformare una necessità in una scelta.
* Università di Padova
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