Donnet: «Orgoglioso delle mie Generali. Dico no a vecchie forme di capitalismo»

Intervista a tutto campo con l’amministratore delegato di Generali, Philippe Donnet, che si prepara all’assemblea del 29 aprile

Philippe Donnet, Group Ceo di Generali
Philippe Donnet, Group Ceo di Generali

VENEZIA. Parla, da Venezia, con alle spalle il leone rosso stilizzato che è l’icona di Generali. Perché su una cosa è molto chiaro: il legame con quell’idea di Compagnia che lo ha portato nel ruolo di amministratore delegato sei anni fa, dopo esservi entrato tre anni prima con la responsabilità di Generali Italia, si vede e lo rivendica con forza. E che tipo di idea è? Una società credibile e sostenibile. «Ho appena terminato un road show negli Stati Uniti e sono orgoglioso delle valutazioni che ho ricevuto per il lavoro svolto». Quindi nessun passo indietro rispetto a una linea di gestione che ha portato il dividendo da 0,80 a 1,07 euro, in costante crescita e con l’impegno a farlo salire ancora.

Sta tutto qui, nella parola orgoglio e nella costruzione di valore in favore dell’azionariato l’impegno con il quale Philippe Donnet si presenterà all’appuntamento del 29 aprile a Trieste per l’assemblea che per la prima volta dopo anni si svolge in un clima di aspro combattimento fra due visioni antitetiche.

Uscire vincitore da due mandati consecutivi non gli basta e non si sottrae alla domanda del chi gliel’ha fatto fare? «Non la mia carriera, non l’ambizione personale» ma la volontà ferrea di continuare nella stessa direzione. Qual è questa direzione? «Migliorare sempre più la solidità e la reputazione di Generali nel mondo».

È inevitabile chiedersi in che cosa si senta diverso, lui e il suo team, dalla cordata che gli si oppone.

«Del Vecchio è un imprenditore geniale», premette. Non esprime giudizi né su lui né su altri. Ma subito aggiunge che non si riconosce in quel che vede nella visione di governance dietro l’attività del re degli occhiali e di Francesco Gaetano Caltagirone, pur mai nominato.

A che cosa si riferisce?

«A un approccio del vecchio capitalismo».

Che intende per vecchio capitalismo?

«In Italia ci sono molti imprenditori capaci. Alcuni di loro hanno una visione "padronale" della gestione delle società. Non è nella loro cultura la separazione netta tra essere azionisti, essere consiglieri ed essere manager professionali. Il mio non è un giudizio di merito, ma questa visione non va bene con il mondo finanziario di oggi. Secondo me questo fa parte del vecchio capitalismo, questo intendo. Una governance moderna, adatta a una grande public company quale è Generali, allineata con le migliori aziende, è fondamentale».

In questo senso per Generali si apre una nuova fase.

«Certo. La lista che mi ripropone è anche uno strumento per migliorare la governance della Compagnia, non è la lista di Mediobanca, ma la lista del cda che porta un contributo per la creazione di una vera public company. Nel cda ci sarà il 77% di candidati indipendenti, un presidente indipendente. È una partita per la sostenibilità della società e per il suo funzionamento».

Un cda diviso è un problema.

«Se ci sono scontri non si lavora bene. Le tensioni si riverberano sui manager e da questi al personale e agli agenti».

Dopo due mandati con risultati che lei giudica positivi, viste le tensioni, non le conveniva uscir di scena e godersi il lavoro svolto?

«La mia motivazione è forte. Non lo faccio per restare altri tre anni. Lo faccio per la società. Gli azionisti devono scegliere fra una Compagnia al servizio di tutti gli azionisti o una Compagnia controllata da alcuni azionisti. E poi, scusi, i dividendi che abbiamo distribuito non sono una cosa banale. Abbiamo distribuito oltre 8 miliardi in questi anni. La società è più solida e abbiamo contratto il debito».

I ricordi si aggiungono alle analisi: a Trieste, dice, mi fermavano per chiedermi dei rendimenti.

«Durante la pandemia il regolatore impose il blocco dei dividendi, spiegai che ci sono famiglie per le quali i dividendi sono un’entrata importante. Alla fine, anche se con un po’ di ritardo, abbiamo pagato tutto».

Tornando al debito: ridurre il debito senza usarlo per fare investimenti?

«Detta così è una sciocchezza. Prima ci dicono che dobbiamo ridurre il debito poi che dovremmo farne di più per avviare nuove acquisizioni. E comunque chi oggi ci critica su questo punto ne ha approvato il piano di riduzione».

Cattolica non l’avete pagata troppo? L’espressione di Donnet si allarga in un sorriso che sa di gol a porta sguarnita.

«Cattolica è stata una operazione di successo che ci porta a essere la Compagnia assicurativa numero 1 in Italia. Adesso dobbiamo essere bravi con l’integrazione, e lo saremo. Cattolica è stata una grande operazione, il Cda l’ha definita un capolavoro. È stato un grande affare. Rivendico le nostre acquisizioni in Portogallo, in Grecia e in Malesia. E quella in Francia».

Dove guardare, a quali mercati?

«Abbiamo tre miliardi da investire nel triennio. Nostro obiettivo è rafforzare i nostri investimenti in Europa, specie dove non abbiamo la leadership».

Nient’altro?

«Se guardiamo all'asset management, ci sono anche il Regno Unito e gli Stati Uniti. L'Asia resta un focus, recentemente abbiamo rilevato la joint venture in India».

La guerra, lei crede che creerà instabilità anche nel vostro mondo?

«Questo conflitto è una tragedia. Generali si è subito data da fare. Abbiamo messo a disposizione tre milioni di euro per i rifugiati e avviato una raccolta di fondi tra tutti i dipendenti grazie alla quale abbiamo aggiunto un ulteriore contributo di un milione».

L’impatto sul Gruppo però sembra essere debole.

«Non avevamo operazioni in Ucraina e ci siamo ritirati subito dalla Russia». C’è una emergenza sociale nell’Europa dell’Est e il conflitto avrà «un impatto finanziario sulla crescita dell’Europa, come stiamo già vedendo».

E poi c’è la crescita dell’inflazione, i cui effetti sono già misurabili. Trieste, Venezia, Milano, Torino, Verona, Roma. Ma dov’è la casa di Generali?

«Le rispondo così: quando Generali aprì i suoi uffici a Trieste subito si diffuse in una quindicina di sedi sparse in Europa. Perché il cuore di Generali è internazionale per vocazione».

Ci pensa un po’, ma non troppo, e poi affonda con delicata decisione.

«Io sono un manager e devo saper anticipare il futuro. Abbiamo reso solide le Generali, siamo diventati più forti rispetto, ad esempio, al 2008 quando, con la crisi finanziaria, abbiamo sofferto molto».

Ma questo cosa c’entra con le radici?

«Voglio dire che noi dobbiamo guardare al futuro senza dimenticare le radici. Non possiamo rinunciare a Trieste. Quando sono arrivato c’era un piano per portare via da Trieste piuttosto che portare a Trieste. Noi dobbiamo crescere senza dimenticarci della nostra storia. Per questo è stato ristrutturato palazzo Berlam, che è un pezzo di passato entrato nel futuro con un restauro di grande qualità. Mentirei se dicessi che noi possiamo pensare di riportare tutto a Trieste, non sarebbe nemmeno possibile. E poi voglio ricordare che qui hanno sede alcuni pezzi importanti del nostri sistema, pensi alla direzione finanza o Genertel, ma sono solo due esempi. Senza dimenticare i nostri investimenti immobiliari».

Intende Porto Vecchio.

«A Porto Vecchio siamo entrati nella società del centro congressi. Soprattutto, per noi Trieste è la scuola del management. Deve essere un luogo di alta formazione, che faccia crescere i giovani di quella città. La nostra Generali Academy deve essere una vetrina del capitale umano».

E poi c’è Venezia.

«Il restauro delle Procuratie Vecchie è un progetto iniziato più di sei anni fa, ero ancora l'amministratore delegato di Generali Italia, mi fu presentato da Simone Bemporad ed Emma Ursich. Quando sono entrato in quel palazzo in stato di semi-abbandono mi si è stretto il cuore. Ora lì c’è la nostra The Human Safety Net, con i suoi progetti di sostegno ai rifugiati e la nostra attività in favore della sostenibilità. Quando abbiamo iniziato a lavorarci non c’era ancora la sensibilità che c’è oggi».

Non è un progetto troppo atipico per un uomo di finanza. Dice che così deve andare il nuovo mondo. Sarà anche per questa visione, e naturalmente per i risultati che rivendica, che Philippe Donnet si tiene saldo il leone rosso alato, pronto a farlo combattere con il suo opposto, quel leone nero con le fauci spalancate scelto da Caltagirone.

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