L’accordo tra Generali e Natixis e quei falsi allarmi sui Btp italiani

Ancora una volta dietro le critiche sull’operazione annunciata dal Leone di Trieste c’è la battaglia per il comando del gruppo assicurativo

Luca PianaLuca Piana
Trieste, la sede delle Assicurazioni Generali
Trieste, la sede delle Assicurazioni Generali

Tra i falsi allarmi fatti circolare negli ultimi giorni sull’accordo tra Generali e Natixis c’è quella del rischio che, con la creazione della nuova società comune fra i due gruppi per la gestione di 1.900 miliardi di investimenti, correrebbe il debito pubblico italiano. Che fine faranno i 37 miliardi di euro di Btp che le Generali custodiscono? Da qui l’altra insinuazione: non è che ora, con la nuova joint venture, il gruppo triestino preferirà puntare sui titoli di Stato di qualche Paese straniero, mettendo in difficoltà il Tesoro italiano quando emette debito?

Per verificare l’infondatezza di questi timori, non era necessario attendere che il consiglio di amministrazione di Generali si riunisse per approvare l’accordo e che il numero uno Philippe Donnet rispondesse sul tema in prima persona, come ha fatto ieri. Sarebbe stato sufficiente ascoltare quanto aveva spiegato la scorsa settimana l’amministratore delegato di Generali Italia, Giancarlo Fancel, ai deputati e senatori della Commissione Bicamerale sugli enti di previdenza. Già oggi, infatti, le decisioni sugli investimenti del gruppo non vengono prese da Generali Investments, la società che creerà la joint venture con Natixis.

Il compito di fornire le indicazioni strategiche sul portafoglio di lungo termine e come investire le risorse spetta infatti al Chief Investment Officer del gruppo, che sottopone poi le sue valutazioni al consiglio di amministrazione. Fatte le debite semplificazioni, il paragone è quello dei taxi: il cliente (Generali) dice dove vuole andare e il tassista (Generali Investments) ce lo porta. La situazione «così è e così resta», ha ribadito ieri Donnet, spiegando che poter contare su un gestore di stazza mondiale, come sarà la nuova società, aiuterà a «portare investitori in Europa e in Italia».

Nella finanza italiana Generali fa da sempre la figura del gigante nel giardinetto di casa, che con i suoi 850 miliardi di risorse in gestione fa gola a chi vorrebbe influenzarne la destinazione. Quello che ci si dimentica spesso è che quella montagna di denaro serve a garantire le prestazioni delle polizze assicurative e dei contratti sottoscritti dai clienti, che spesso hanno un orizzonte temporale di lunga durata. Dieci anni fa il gruppo di Btp ne aveva in pancia molti più di oggi, per 61 miliardi di euro, il 37 per cento del proprio portafoglio di titoli governativi. Da allora la concentrazione si è diluita, scendendo di dieci punti percentuali. Un po’ è avvenuto per motivi normativi, un po’ perché è giusto così: il rischio di sostenere il debito pubblico italiano, che nel frattempo è salito da 2.200 a 3.000 miliardi, non può essere scaricato sulle spalle dei clienti, come hanno mostrato con chiarezza le crisi finanziare degli ultimi anni.

Destano dunque un po’ di stupore le dichiarazioni fatte ieri, dopo l’annuncio dell’accordo con Natixis, da Fausto Orsomarso, capogruppo di Fratelli d’Italia nella commissione Finanze del Senato: «L’operazione rischia di avere impatti rilevanti per l’Italia e i suoi risparmiatori», ha detto, aggiungendo di «non poter nascondere la preoccupazione, per gli azionisti della società e per gli interessi nazionali, che questo nuovo protagonista della finanza continentale di italiano abbia solamente il denaro dei nostri risparmiatori».

Se si traccia l’attività parlamentare di Orsomarso, si nota che è stato il relatore del cosiddetto disegno di legge “Capitali”, che con il suo articolo più discusso ha messo fuori gioco per le grandi società la possibilità che il cda presenti una sua lista di candidati nel momento in cui arriva in scadenza. Alla fine, è il sospetto, si arriva sempre lì: più che il merito dell’alleanza tra Generali e Natixis, pensata per creare il più grande asset manager d’Europa e insidiare il monopolio dei colossi americani in questo settore, ai critici interessa soprattutto la battaglia per il comando del consiglio di amministrazione del gruppo triestino. Una battaglia in cui il mercato tre anni fa, con il voto di lista, aveva sconfitto i due soci privati Francesco Gaetano Caltagirone e Delfin. Che ora, magari, sperano di riaprire la partita. ​​​​​​

Riproduzione riservata © il Nord Est