Philippe Donnet: «Chi ha investito in Generali ha ricevuto un grande valore. Il mercato chiede continuità»

Parla il group ceo del Leone, a due settimane dall’assemblea dei soci del 24 sul rinnovo del cda «Quello che si deciderà è il futuro della compagnia: se ancora una public company o un gruppo controllato da privati»

Roberta Paolini

«In un momento di incertezza così profonda, Generali rappresenta un rifugio solido e sicuro per clienti e investitori». La terrazza della foresteria di Generali domina Piazza Unità d’Italia, il golfo di Trieste si apre magnifico. In un colpo d’occhio è un abbraccio tra la città mitteleuropea e la compagnia italiana più internazionale del Paese. Philippe Donnet group CEO del Leone ci accoglie qui e del simbolo del gruppo finanziario ha la calma e la sicurezza.

Dottor Donnet in queste ore i mercati sono scossi dalle tensioni globali, dai dazi americani, dai dati macroeconomici. Quanto può incidere questo contesto sulle prospettive di Generali?

«È una domanda complessa, che merita una risposta articolata. Abbiamo visto giornate difficili su tutte le piazze mondiali. Nessuno si aspettava misure così dure da parte degli Stati Uniti: erano attesi nuovi dazi, sì, ma non a questo livello e con questa portata globale. Il confronto tra Stati Uniti e Cina è diventato un asse portante dell’economia mondiale, e le conseguenze – sui prezzi, sull’inflazione, sui tassi – sono oggi impossibili da prevedere con certezza. In questo scenario così turbolento, Generali rappresenta un punto di riferimento, un rifugio solido per clienti e investitori. Questo è il primo messaggio. Non è un’affermazione astratta: negli ultimi anni abbiamo attraversato e superato crisi molto importanti. Nel ciclo strategico precedente abbiamo dovuto fare i conti con la guerra in Ucraina, che ha portato a un’inflazione galoppante e a un rapido aumento dei tassi. Eppure abbiamo superato tutti i target. Lo stesso è avvenuto durante la pandemia: nonostante lo shock globale, abbiamo centrato tutti gli obiettivi. Oggi ci troviamo in un nuovo contesto di incertezza, ma io sono fiducioso. Quello presentato lo scorso gennaio è il quarto piano consecutivo che l’attuale team di management presenta ed esegue. Il successo dei tre precedenti dimostra che siamo in grado di rispondere con efficacia a tutte le sfide esterne».

L’assemblea del 24 aprile può essere influenzata dall’incertezza dei mercati?

«Sì, credo che l’attuale contesto conferisca un’importanza ancora maggiore a questa assemblea, chiamata a rinnovare il consiglio di amministrazione. Pensare di poter cambiare l’assetto di governance senza una direzione industriale chiara e un Consiglio coeso sarebbe, francamente, un azzardo. La continuità di una governance, con un Consiglio guidato dal nostro Presidente Sironi che ha dimostrato grande leadership, e da un management esperto che ha saputo affrontare crisi gravi – è oggi più che mai nell’interesse di tutti gli azionisti, e anche del Paese. Generali è una compagnia sistemica per l’Italia, e la sua stabilità è un fattore di sicurezza anche nel contesto economico più ampio».

Ci sono due azionisti privati non finanziari, Caltagirone e Delfin, che potrebbero incidere sul controllo senza passare da un’Opa. Generali è una public company: che lettura potrebbe dare il mercato di questa situazione?

«Chi vuole controllare Generali deve riconoscere un premio di controllo a tutti gli azionisti. È così in tutte le società quotate, contendibili, e vale anche per noi. Quanto alla percezione del mercato, la settimana scorsa ero in Canada, a Montréal e Toronto, a incontrare investitori. Alcuni sono già azionisti, altri sono interessati a diventarlo. Quello che ci hanno detto è chiaro: non comprendono questa fibrillazione intorno a Generali. Vedono una compagnia solida, con risultati di qualità da nove anni, un piano industriale convincente, una squadra che ha portato a termine tre piani e ora ne presenta uno nuovo, sfidante ma credibile. Hanno fatto capire che le loro decisioni di investimento saranno correlate alla continuità del management. È la stessa linea espressa da ISS, uno dei principali proxy advisor mondiali.

Un ritorno del 320% agli azionisti in nove anni, buyback, dividendi, titolo che prima della tempesta dazi quotava oltre i 31 euro, soglia che non si superava dal 2007. Perché tutto questo non è bastato a disinnescare la contesa?

«Purtroppo non sono io la persona che può darle questa risposta. Quello che posso dirle è che abbiamo garantito agli azionisti un total shareholder return tra i migliori dell’intero settore assicurativo. E questo è stato reso possibile da scelte strategiche chiare, prudenti, efficaci. Abbiamo introdotto il buyback, che mancava da 15 anni, e distribuito dividendi sempre crescenti. I numeri dicono che chi ha investito in Generali ha ricevuto valore. La maggior parte degli azionisti è soddisfatta di questi risultati. Questo rumore di fondo non fa bene a Generali, e soprattutto ai suoi azionisti, anche se la performance non ne è stata impattata. Quando nove anni fa ho assunto l’incarico, la compagnia era percepita più debole. Oggi non è più così. Negli ultimi anni, grazie alla lista del consiglio, questi temi relativi al peso di singoli azionisti erano scomparsi dal radar degli investitori».

Unicredit è salita oltre il 5%. Lei e l’ad Andrea Orcel siete due uomini di mercato. Vede possibile una collaborazione futura, anche oltre gli accordi già in essere?

«Più che i rapporti personali, contano quelli tra istituzioni. E in questo senso posso dire che il rapporto tra Generali e UniCredit è buono, solido. Abbiamo una partnership bancassurance in alcuni Paesi dell’Est Europa, che funziona molto bene. L’ingresso di UniCredit nel capitale, come dichiarato dalla banca stessa, è un investimento finanziario. Starà a loro ora valutare come tutelare questo investimento. Da parte nostra, guardiamo con interesse a ogni collaborazione che possa creare valore».

L’acquisto dell’11% dei BTP in asta, recentemente, è stato letto anche in chiave politica. È così?

«Il nostro portafoglio di BTP serve a coprire le passività assicurative italiane. Nel 2024 siamo tornati a una raccolta netta positiva di Gruppo, quasi 10 miliardi, e questo ci permette di aumentare i nostri acquisti, sempre nel rispetto della nostra disciplina di asset allocation».

Parliamo dell’operazione con Natixis. Ha generato critiche, anche accese. Alcuni l’hanno addirittura indicata come uno dei motivi dello scontro in assemblea. Perché, secondo lei, un progetto così importante ha suscitato reazioni così negative?

«Io sono convinto che l’operazione sia stata, in parte, strumentalizzata. Alcuni hanno voluto trasformare questa assemblea in un referendum su Natixis. Ma non è così. Il voto del 24 aprile riguarda il futuro della compagnia: se Generali debba restare una public company oppure diventare un gruppo controllato da soggetti privati. Questo, in un momento di grande incertezza globale, rappresenta un tema di sicurezza per gli azionisti, per il sistema finanziario italiano, per l’interesse generale. Quanto all’accordo con Natixis, esso darebbe vita alla prima piattaforma europea di asset management per ricavi, con la guida espressa da Generali, e con la possibilità di attrarre mandati da clienti istituzionali, grazie alla scala e alla qualità degli asset. Chi critica l’operazione, spesso non tiene conto di questo potenziale».

Uno dei punti sollevati riguarda la presunta “perdita di controllo” sulla gestione del risparmio italiano. È un rischio reale?

«Assolutamente no. Lo abbiamo spiegato chiaramente. Le compagnie assicurative italiane, che sono proprietarie degli asset dei risparmiatori, mantengono il 100% del controllo sulle decisioni di investimento. Sono loro a decidere dove investire e a chi affidare i mandati. Questo non cambia con l’operazione Natixis. Semmai, la novità è che grazie a questa partnership possiamo aprire le porte del primo mercato mondiale dell’asset management, quello americano. Possiamo attrarre investitori istituzionali americani interessati a investire in BTP, in infrastrutture italiane e nell’economia reale del Paese. Questa operazione è una leva per rilanciare il mercato finanziario italiano. Inoltre, potremo offrire ampie soluzioni alle casse di previdenza e alle piccole compagnie assicurative italiane».

Il governo ha espresso alcune riserve, si è parlato di procedura Golden Power. Esiste un rischio di stop all’operazione?

«Siamo assolutamente aperti al dialogo con il governo. E, se emergeranno osservazioni o suggerimenti costruttivi, siamo pronti a tenerne conto per migliorare ulteriormente l’operazione. Ma è chiaro che se, durante il processo, sussistessero ancora riserve reali da parte del Governo, il consiglio non potrà ignorarle».

Restando in tema di regolatori: secondo lei, in questo complesso risiko finanziario che coinvolge anche la compagnia, le autorità sono abbastanza attive?

«Noi operiamo nell’asset management e nell’assicurazione, non facciamo parte – a parte Banca Generali – del sistema bancario. Bisogna capire quale impatto possa avere questo nuovo contesto proprio sul risiko bancario. Fare un’OPA in un mercato tranquillo non è come farla in un mercato turbolento. È solo un’osservazione, non mi occupo di banche, però di rischio me ne intendo un po’. Quindi vediamo come evolveranno le cose. Detto questo, il mercato è un campo da gioco e ci vuole un arbitro, le autorità sono quell’arbitro e io ne ho piena fiducia».

Come giudica l’ipotesi circolata di riportare la soglia per l’OPA obbligatoria dal 25% al 30%, come era in passato?

«È una buona domanda. Ma non commento su ipotesi».

Avete portato a termine circa 40 operazioni di M&A in questi anni, continuerete o siete focalizzati sulle integrazioni?

«Oggi la priorità è integrare Liberty Seguros in Spagna e Portogallo, e Conning, che ci apre al mercato statunitense del risparmio. In questo contesto, saremo estremamente prudenti. La prima priorità resta l’integrazione e la remunerazione degli azionisti».

Torniamo a Trieste e al progetto su palazzo Carciotti.

«Trieste è nel DNA di Generali. Qui siamo nati, qui abbiamo la nostra sede storica. Torniamo a fare l’assemblea in presenza, nel nostro nuovo General Convention Center. Abbiamo ristrutturato Palazzo Berlam, rendendolo la sede della nostra Academy, creato un centro per data science e AI, e ora rilanciamo Palazzo Carciotti come sede di un Innovation Hub dedicato all’intelligenza artificiale. Il progetto si chiama “Agorai”: sarà un ecosistema aperto, inclusivo, con Regione, Comune, importanti soggetti privati di respiro internazionale, università e centri di ricerca. L’obiettivo è mettere le persone insieme per generare valore intellettuale, umano e culturale».

Avete annunciato 1,3 miliardi di investimenti in AI. Dove si concentrano?

«Due priorità: il supporto alla rete e alla consulenza ai clienti, e l’efficienza operativa. L’AI ci aiuterà a migliorare il servizio, rafforzare la relazione con i clienti e ottimizzare i costi. Ma il capitale umano resta centrale. L’assicurazione è un business basato sull’emozione: si parla di rischi, di futuro, di famiglia. Serve empatia, serve interazione umana».

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