Giavazzi: "Se arriva un'altra recessione, l'Italia è a rischio più di altri"

L'intervista all'economista Giavazzi: segnali preoccupanti da congiuntura, dazi e tensioni geopolitiche: «E il Nordest può diventare più competitivo se fa il salto nel capitale umano»

«Le probabilità di una nuova recessione a livello mondiale sono concrete e l’Italia rischia più di altri». Francesco Giavazzi, attualmente professore di Economia politica all’Università Bocconi e in passato docente all’Univeristà di Padova e a Ca’ Foscari-Venezia, già consulente del Governo Monti per la spending review e autore di numerosi libri di stampo economico, guarda con preoccupazione allo scenario macro. La ricetta? «Ridurre le dimensioni dello Stato», spiega, per poi sottolineare che il Nordest potrebbe fare molto di più, a cominciare da un più stretto legame tra atenei e mondo produttivo per tenere il passo dell'innovazione a livello internazionale.
Fino a poche settimane fa tutti gli analisti sembravano concordi nel vedere per il 2018 una crescita coordinata a livello mondiale, ma ora le certezze sembrano vacillare. Mario Draghi parla di crescita moderata e non più robusta, Bankitalia stima che nel primo trimestre la crescita del Pil italiano dovrebbe essersi attestata allo 0,2 per cento, un decimale in meno del periodo ottobre-dicembre 2017 e anche gli indicatori di fiducia soffrono. Cosa attendersi nei mesi a venire?
«Dopo anni di crescita a livello mondiale, vanno emergendo chiari segnali di rallentamento della crescita, dall’Europa alla Cina. Non si tratta solo del normale ciclo economico: la situazione è aggravata dalle politiche protezionistiche volute dall’Amministrazione Trump e dalla crescita registrata dai prezzi petroliferi, nell’ordine del 50 per cento nell’arco dell’ultimo anno. In queste condizioni, la possibilità di una nuova recessione non è bassa, anzi si fa sempre più concreta».


Dunque è pessimista. Eppure a fine inverno Ocse e Fondo monetario internazionale hanno pubblicato le nuove stime relative al Pil mondiale, visto nel 2018 rispettivamente in accelerazione del 3,8 e del 3,9 per cento.
«Non dico che una nuova recessione è alle porte, ma indubbiamente si vanno accumulando segnali preoccupanti per il futuro. Non dimentichiamo anche le tensioni di carattere geopolitico e il cambio di testimone alla guida della Banca centrale europea atteso per il prossimo anno».


Come è messa l’Italia in questo contesto?
«Il nostro Paese cresce sensibilmente meno rispetto alla media dell’Eurozona. Quindi, qualora il progresso del Prodotto interno lordo nell’area dovesse passare dal 2,5 per cento fin qui previsto all’1,5 per cento per l’anno in corso, nel nostro caso potremmo passare dall’1,5 per cento allo 0,5 per cento. Non dimentichiamo che l’Italia deve fare i conti con il macigno del debito, che comprime sensibilmente la crescita, imponendo un’enorme spesa per interesse. Denaro che altrimenti potrebbe essere impiegato per ridurre le tasse e in questo modo sostenere in maniera importante tanto i consumi, quanto gli investimenti».


Se questo scenario nazionale e internazionale si concretizzasse anche solo in parte, sarebbero guai per il nuovo Governo, considerato che serviranno 12,4 miliardi di euro solo per sterilizzare gli aumenti automatici dell’Iva...
«A fronte di una spesa pubblica che ammonta a circa 800 miliardi di euro, non credo sia un grosso problema trovare quella cifra. Abbiamo uno Stato elefantiaco che occupa spazi dell’economia che dovrebbero essere lasciati ai privati e conta partecipazioni in società che generalmente si mostrano poco efficienti».


Dunque occorre ridurre la spesa pubblica, anche se questo, almeno nel breve termine, ha un effetto recessivo…
«Non è vero. Con due colleghi ho scritto un libro in uscita entro fine anno (“Austerità”, ndr) analizzando le politiche di sedici grandi Paesi nell’arco di trent’anni: è emerso che sono gli aumenti delle tasse a soffocare la crescita, non i tagli alla spesa, compresa quella pensionistica. Dunque si può ridurre il peso dello Stato senza penalizzare la crescita, ovviamente preservando i servizi essenziali e andando a colpire soprattutto le sacche di inefficienza e le aziende pubbliche che falsano la concorrenza per i privati».


Però le promesse elettorali vanno in direzione opposta. C’è un vasto arco di partiti che si è detto convinto di poter mettere mano alla legge Fornero per accelerare il pensionamento dei lavoratori senior. Che ne pensa?
«Sarebbe una follia. Allungare l’età pensionabile è inevitabile a fronte di un’aspettativa di vita che già oggi è 87 anni per le donne e 81 per gli uomini. Andare presto a riposo richiede continui rialzi delle tasse a carico di chi lavora. È uno scenario insostenibile, per cui mi auguro davvero che non si proceda in questa direzione».


Chiudiamo con una domanda sul territorio nordestino, che lei conosce bene sia per le passate docenze presso gli atenei locali, sia perché ha casa nel Veneto. Come vede quest’area del Paese?
«Indubbiamente qui le cose vanno meglio che altrove, ad esempio nel Mezzogiorno, che resta lontanissimo dai livelli pre-crisi. Ma si tratta di una macroregione che non è mai riuscita a fare il salto di capitale umano. C’è una grande università come Padova, ma si fatica a tradurre la qualità della ricerca in innovazione diffusa sul territorio. Ed è un peccato se si considera che il potenziale di capacità e conoscenze non manca».
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