Gribaudi: Ritratto di una donna e di un nuovo modo di fare impresa

La chiamano la regina delle chiavi. Torinese di nascita, veneta di adozione: sei figli, laurea in Economia, imprenditrice della Keyline, da poche settimane presidente dei Musei Civici di Venezia

La chiamano la regina delle chiavi. Torinese di nascita, veneta di adozione: sei figli, laurea in Economia, da poco presidente dei Musei civici di Venezia. Mariacristina Gribaudi voleva fare la maestra ma è diventata imprenditrice della Keyline di Conegliano, che produce chiavi e macchine duplicatrici. Azienda eredità della famiglia Bianchi, che gestisce con il marito Massimo Bianchi che ha sposato nel '98.

L'accordo tra i due è chiaro: per tre anni uno guida l'impresa e l'altro s'inventa qualcosa. Poi si cambia. La grande impresa di cucine dei Gribaudi aveva sede a Torino, fabbrica a Conegliano, e fu venduta nel '96. Fu allora che Mariacristina, rinacque due volte: prima come importatrice di mobili, poi in Keyline.

Donna di corse e maratone, il destino le ha riservato un amore da film: un giorno, lei bussò al finestrino dell'auto di lui. Era il 1995. Allora Keyline si chiamava Silca; un'azienda che insieme lasciarono nel 2002 per ripartire dall'ultima acquisizione portata in casa.

Chi è il suo modello?

«Credo di assomigliare a mio padre. Mi appartiene la sua umanità, l'approccio alla vita, il legame con la fabbrica; la domenica, quando ero piccola, mi portava ad ascoltare il silenzio dei macchinari. Controllava se tutto era in ordine e pulito».

Qual è l'episodio fondamentale della sua vita?

«Credo l'aver avuto un papà sopravvissuto a un campo di concentramento: aveva 20 anni e gli è stata tolta l'adolescenza. Ma poi ha restituito alla patria valori e posti di lavoro. Il suo animo gentile, triste e di poche parole, è sempre con me. Al suo fianco l'esempio di una madre manager che negli anni '60 aveva 4 figli e viaggiava per il mondo».

Lei quando si è scoperta imprenditrice?

«Ho sempre avuto un forte desiderio di autonomia: ho lavorato in fabbrica con ruoli diversi, poi ho cercato la mia strada. Il mio fil rouge è l'odore dell'acciaio: io sono cresciuta dentro il profumo dell'acciaio». Una sua passione, quella per i mobili, è diventata impresa.

Come c'è riuscita?

«Sono sempre stata una collezionista, una che rovista nei mercatini. La casa per me è come un utero che deve contenere cose che creano emozione. Nel '96 ho iniziato a importare mobili antichi dalla Scandinavia. Prima li portavo a casa dai viaggi, poi ne ho fatto un lavoro».

Che cosa le è rimasto di torinese?

«Sono nata nel 1959 a Torino in pieno boom economico ma quelli erano gli anni bui del terrorismo e avevo paura. Quando ci siamo trasferiti a Conegliano, era fantastico perché potevo uscire in bicicletta. Recuperai il senso della campagna ma per lungo tempo tenni un forte legame con Torino».

Perché Conegliano?

«Mio padre aveva capito che la sua presenza in fabbrica era fondamentale. Arrivammo di fretta, senza avere una casa. Avevo 11 anni e finimmo in albergo, con grande imbarazzo. Poi trovammo casa nel condominio dove abitava Massimo».

Cos'ha oggi di veneto e cosa di piemontese?

«La riservatezza piemontese si è nutrita della capacità veneta di relazionarsi e rompere gli schemi». Impresa e cultura, un binomio oggetto di grandi discussioni e poche applicazioni.

Qual è la sua via?

«Internet ci obbliga a una connessione totale, senza barriere e il mondo è fatto di persone colte che vogliono scrivere la propria storia. In azienda abbiamo creato un comitato per discutere. Abbiamo lanciato: "Cultura in fabbrica" per presentare i libri. C'è un asset invisibile di cui va tenuto conto: la fabbrica non può essere un posto da cui non si vede l'ora si uscire, ma welfare, forza propulsiva nel territorio, famiglia».

Che benefici dà all'azienda un cambio dei vertici ogni tre anni?

«Non è solo cambiare vertice ma cambiare tra un uomo e una donna, significa comprendere come si lavora nella differenza di genere perché, culturalmente e per dna, abbiamo approcci lavorativi diversi. Abbiamo dato un input fortissimo al lavoro delle donne in azienda».

Cosa significa gestire una grande azienda e poi ripartire da una start up?

«Ho ricominciato un miliardo di volte, a partire nel '96 quando è stata venduta l'azienda di famiglia ma anche quando ho capito che non ero io la delegata da mio padre per la successione. Ora andare nei musei è un altro inizio. Il mondo dell'economia è il mio confort ma ho deciso di sfidarmi».

Siamo nel paese del capitalismo familiare che però risulta il peggiore quanto a manager e imprenditrici donne.

«Alla base c'è un problema educativo. Credo serva una sensibilità maggiore e agli uomini mancano un passaggio sulla cultura e la differenza di genere. Se vogliamo cambiare bisogna partire da giovani e dalle scuole. Poi, intervenire anche sui family business che sono in mano agli uomini e che, nella successione, prediligono il figlio maschio».

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