«I risparmi sono pochi, la vera sfida è riportare più persone al lavoro»
Intervista ad Alberto Brambilla, l'ispiratore di quota 102: «L'obiettivo dev'essere avvicinarsi il più possibile alla soglia dei 65 anni, l'età media in Europa, mentre oggi fra uscite anticipate e agevolazioni di ogni tipo siamo a circa 62»

Di fronte alle polemiche nate sulla nuova riforma delle pensioni e sui provvedimenti a sostegno dei redditi bassi decisi dal governo Meloni, Alberto Brambilla invita a rovesciare il punto d'osservazione. «In Italia oggi ci sono 23,6 milioni di persone che lavorano, un record. Molte imprese cercano lavoratori che non trovano: eppure le persone in età da lavoro sono circa 38 milioni e abbiamo il record europeo dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. In Europa siamo gli ultimi in classifica per tasso di occupazione totale, giovanile e femminile. Ecco perché la manovra del governo non funziona: non perché irrigidisce i criteri per andare in pensione ma perché, senza fare nulla per favorire l'occupazione, crea i presupposti per un ulteriore buco di bilancio».
Brambilla è uno dei massimi esperti di sistemi di previdenza in Italia. Già sottosegretario nel 2001-2006, è considerato l'ispiratore di "quota 102", la normativa del governo Draghi che aveva l'obiettivo di superare le rigidità della legge Fornero e uscire dall'insostenibilità finanziaria della "quota 100" di Matteo Salvini. L'anno scorso il governo Meloni ha ricambiato i minimi (la "quota 103"), ora li ha stretti nuovamente.
Perché la manovra è insostenibile?
«Gli sgravi contributivi sui redditi più bassi si tradurranno in un minor incasso per l'Inps stimabile in 15-16 miliardi, che andranno ripianati dalla fiscalità. In un Paese come il nostro che negli ultimi sei anni ha visto aumentare il debito pubblico di 600 miliardi e che il prossimo farà altri 90 miliardi di debiti, si tratta di misure che non ci possiamo permettere».
Con la stretta sulle pensioni, però, si chiede ai lavoratori un sacrificio.
«Con effetti molto ridotti. Per l'Inps le restrizioni comporteranno minori uscite per circa 900 milioni. Il saldo resta largamente negativo».
C'è il taglio delle pensioni per i dipendenti pubblici.
«Sulla carta è l'intervento che vale di più. Dal punto di vista dell'equità, può essere considerato corretto, perché toglie un beneficio immotivato rispetto ai privati. Oggettivamente, però, è un intervento ex post su diritti acquisiti, che non è consentito dalle norme italiane ed europee. Per questo vedo un forte rischio di incostituzionalità».
Perché le pensioni restano un nervo scoperto?
«Bisogna partire da un punto: una parte consistente della spesa assistenziale – le integrazioni al minimo, le maggiorazioni, la 14esima mensilità - è caricata impropriamente sul conto pensioni, tanto che nelle graduatorie Ue siamo i primi per spesa pensionistica e gli ultimi per sostegno a anziani, famiglie e così via. Il sistema invece ha i due stabilizzatori automatici legati alla aspettativa di vita e il metodo di calcolo contributivo per tutti, che lo rendono sostenibile. Oggi il rapporto tra attivi pensionati è pari a 1,45 e se la smettiamo di fare anticipazioni tipo quota 100 e sconti contributivi, aumentando le politiche attive, il sistema sarà solido anche in futuro».
Stiamo tornando verso la legge Fornero?
«Che però, essendo troppo rigida, ha richiesto nove salvaguardie, di cui due fatte dallo stesso governo Monti. Pretendere che l'unica modalità di accesso alla pensione fosse a 67 anni con la vecchiaia, abolendo qualsiasi flessibilità e agganciando anche l'anzianità contributiva alle aspettative di vita - siamo l'unico Paese - ha scatenato una reazione che ha vanificato metà dei risparmi previsti. Dal primo gennaio 2012 sono usciti con le regole pre-Fornero quasi un milione di pensionati. Per questo "quota 102" di Draghi era la soluzione migliore».
Quale deve essere l'obiettivo di una riforma?
«L'obiettivo dev'essere avvicinarsi il più possibile alla soglia dei 65 anni, l'età media in Europa, mentre oggi fra uscite anticipate e agevolazioni di ogni tipo siamo a circa 62. L'unica soluzione, per affrontare l'emergenza di questi anni, è aumentare il numero di persone che lavorano introducendo incentivi come i fringe benefit esenti da contributi e imposte, e un super ammortamento del costo del personale sul modello di industria 4.0. In Italia, il numero di persone in età da lavoro inattive è insostenibile, circa 12 milioni. Abbiamo un'enorme riserva, dalla quale attingere per superare questa fase difficile».
Come si fa?
«La prima strada è togliere i sussidi che permettono a molte persone di non lavorare. Poi però bisogna aiutare tutti a trovare un lavoro, riducendo l'abbandono scolastico, puntando sulla formazione, sulle politiche attive. È qui che nella riforma drammaticamente non c'è nulla».
Con la tassazione del lavoro, che porta a stipendi troppo bassi, le persone non sono granché invogliate a lavorare di più.
«La questione è più complessa. Abbiamo sempre puntato su una contrattazione collettiva un po' pauperista e egualitaria, con il risultato che oggi metà dei contratti nazionali sono scaduti e il dibattito si ferma ai sussidi. La questione va ribaltata: la tassazione sui profitti delle imprese è del 52%. Aiutiamo le imprese a investire con i super ammortamenti e gli incentivi sotto forma di crediti d'imposta, e la maggiore produttività determinerà anche un aumento degli stipendi dei lavoratori».
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