Il caro energia anticamera di un blocco dell’industria in stile lockdown: siderurgia e carta in ginocchio insieme a vetro e ceramica

Costrette ad alzare le mani dinnanzi alla congiuntura e arrendersi a spingere il tasto stop, sospendendo le produzioni per qualche ora o qualche giorno, con l’incubo che un nuovo stop generale. Così s’incede a vista, un occhio rivolto alle quotazioni di gas ed elettricità, l’altro ai mercati, caratterizzati da una visibilità sempre più ridotta

Maura Delle Case
Workers walking along large paper spools in printing plant
Workers walking along large paper spools in printing plant

L’incedere singhiozzante delle produzioni è una novità che ha fatto irruzione sullo scenario industriale nazionale e nordestino in queste ultime settimane. In un inizio d’anno che ha visto il ferale incrociarsi di criticità tali da rendere, molto spesso, addirittura sconveniente tenere gli impianti accesi.

Materie prime introvabili, ora anche a causa dei mercati di approvvigionamento “banditi” di Russia e Ucraina, e costi dell’energia impazziti, protagonisti oramai da settimane di una corsa al rialzo che, esacerbata dalla guerra, ancora non ha tagliato il traguardo, stanno mettendo le imprese, quelle energivore su tutte, a tappeto. Costrette ad alzare le mani dinnanzi alla congiuntura e arrendersi a spingere il tasto stop, sospendendo le produzioni per qualche ora o qualche giorno, con l’incubo che un nuovo stop generale, come se non peggio dei passati lockdown, sia dietro l’angolo. Così s’incede a vista, un occhio rivolto alle quotazioni di gas ed elettricità, l’altro ai mercati, caratterizzati da una visibilità sempre più ridotta.

Per capire con quali costi fanno i conti le imprese che per produrre macinano letteralmente energia, basti ricordare che a dicembre il gas costava 115 euro/Mwh, l’energia elettrica 281/Mwh. Cifre già esorbitanti che la guerra russo-ucraina ha fatto schizzare ancor più su, a 700 euro/Mwh per l’energia elettrica. Pesantissime le conseguenze per l’industria. A partire da quella siderurgica, che si trova anche ad affrontare la mancanza di materie prime come rottame, preridotto, ghisa e ferroleghe che arrivavano da Russia e Ucraina per un totale di 2,5 milioni di tonnellate all’anno.

Alessandro Banzato, presidente di Federacciai (e di Acciaierie Venete) denuncia la difficoltà e rileva il paradosso: «Il momento per il nostro settore sarebbe positivo – afferma –, gli ordini ci sono, peccato che il lievitare del prezzo dell’energia e la carenza di materie prime ci obbligano a rallentare se non a fermare le nostre produzioni». Dopo un 2021 che ha recuperato i livelli 2019 con 24, 4 milioni di tonnellate di acciaio prodotto (+19% sul 2020), il 2022 si apre in contrazione con 1,8 milioni di tonnellate (-3,9 rispetto al 2020). Un rallentamento che le ultime fiammate dei costi energetici rischiano ora di tradurre in un nuovo stop. Confindustria stima che il settore, nel 2022, pagherà una “bolletta” energetica da 37 miliardi di euro contro gli 8 miliardi del 2019. Oltre tre volte tanto. Un conto che arriverà, puntuale, anche alle aziende nordestine.

Dopo un periodo di stop&go, nei giorni scorsi Acciaierie Venete si è fermata. Anche il prezzo minimo dell’elettricità – rimasto per giorni sopra i 400 euro/Mwh (contro i 50 euro dell’anno scorso) – è troppo alto per garantire la tenuta dei margini. Per gestire la situazione il gruppo del presidente Banzato ha attivato una cassa integrazione ordinaria, che integra il reddito dei lavoratori – 1.400 quelli complessivamente a libro paga – che restano a casa.

Tra Verona e Osoppo invece il gruppo Pittini nelle ultime settimane ha fermato sia le acciaierie che i laminatoi. Una prima volta per tre giorni, una seconda per mezza giornata e così avanti. Colpa del caro energia, ma anche del blocco delle importazioni di materie prime essenziali alla produzione di acciaio, come ferroleghe e carbone.

Niente stop, ma forte preoccupazione all’interno del Gruppo Cividale. «Questi aumenti folli dell’energia sono difficilmente gestibili dalle fonderie – dichiara la presidente Chiara Valduga –, difficili da ribaltare sul prezzo di vendita, sia per l’entità degli stessi che per il necessario differimento temporale tra il momento in cui la fonderia subisce l’aumento e quello in cui riesce a travasarlo sul prezzo di vendita». Valduga rileva anche un problema di concorrenza: «In America per ora gli aumenti sono stati minimi e anche in Francia e Germania non hanno raggiunto gli stessi livelli italiani. Stiamo perdendo competitività e questo è un aspetto molto preoccupante».

A pagare la fiammata dei costi energetici sono le industrie energivore in generale e dunque anche vetro, ceramica e carta. Con quest’ultima, come nel caso dell’acciaio, protagonista (al netto degli ultimi sviluppi) di un momento di particolare brillantezza come racconta Lorenzo Poli, presidente di Assocarta e Ad delle veronesi Cartiere Saci: «Stiamo vivendo una piacevole e forte ripresa: oggi l’Italia è il 2° produttore europeo per volumi di carta, subito dopo la Germania e prima di Svezia e Finlandia. Le materie prime riciclate e l’economia circolare stanno premiando il nostro settore. Una volta – rileva Poli – con le nazioni forestali non c’era partita».

L’ottima performance del settore ora rischia di fare a sua volta le spese dell’energia andata alle stelle. Poli guarda al Governo e al decreto legge che concede ristori anche alle aziende energivore. Uno strumento al quale le cartiere affiancano rimedi fai da te simili a quelli adottati dalla siderurgia, rallentando a macchia di leopardo. «Con il gas schizzato a 200 euro/Mwh non conviene a nessuno far andare gli impianti». Così ha fatto la Pro-Gest di Ospedaletto di Istrana (Treviso) fermando la produzione in tutte le sei le cartiere che ha in Italia.

«Vendiamo la carta a 680 euro a tonnellata - ha spiegato il presidente Bruno Zago - ma per produrla oggi occorrono 750 euro soltanto per il gas». Impatto contenuto invece per chi aveva dato corso a progetti di efficientamento come il gruppo veronese Fedrigoni: «Tuttavia – afferma l’Ad Marco Nespolo – è stato inevitabile trasferire una parte dei costi sui clienti, aumentando i prezzi del 10-12%». Il gruppo produce etichette per i vini di alta gamma e packaging per i brand del lusso e della moda. «Settori che sono riusciti ad assorbire questi costi - continua l’Ad -. Se però la situazione dovesse protrarsi a lungo, molte Pmi piccole imprese rischierebbero il tracollo».

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