Il commento / Il paradosso del lavoro per i giovani
Siamo di fronte ad un paradosso: cresce il numero complessivo degli occupati ma i giovani qualificati fanno più fatica a trovare lavoro rispetto ad altri Paesi europei

Hanno fatto molto parlare alcune recenti statistiche sul tasso di occupazione in Italia. Da un lato, secondo l’Istat, si registra a luglio una crescita degli occupati che, a fronte di 56.000 nuove persone impiegate, ha portato il numero complessivo degli occupati a superare la soglia dei 24 milioni di persone dichiaranti un impiego; dall’altro, alcune stime pubblicate da Eurostat ci raccontano come l’Italia sia il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda l’occupazione di giovani qualificati.
In particolar modo, con riferimento a dati relativi al 2023 e riguardanti l’occupazione di giovani tra i 20 e i 34 anni ed in possesso di titolo di studio secondario o terziario conseguito negli ultimi tre anni, scopriamo che la percentuale di giovani occupati in Italia si ferma al 67,5%.
Siamo dunque di fronte ad un paradosso: cresce il numero complessivo degli occupati ma i giovani qualificati fanno più fatica a trovare lavoro rispetto ad altri Paesi europei (91, 5% in Germania, 80, 1% in Francia, 78, 7% in Spagna).
Come mai? La prima statistica ci racconta che in Italia il lavoro non manca. Quello che sembra mancare è un’offerta di lavoro adeguata alla preparazione e alle aspettative di giovani in possesso di diploma e laurea. Produciamo dunque meno laureati del resto d’Europa (solo il 18,5% della popolazione tra i 25 e i 74 anni è in possesso di una laurea) ma che sono comunque troppi rispetto all’offerta di lavoro esistente.
I giovani italiani qualificati fanno fatica ad entrare nel mondo del lavoro perché non reputano le varie offerte che ricevono all’altezza delle loro aspettative. In parte, si può pensare che l’importante risparmio privato italiano, che ancora oggi sostiene i redditi di molti giovani, rappresenti un disincentivo ad accettare condizioni lavorative non particolarmente soddisfacenti. In assenza di necessità di guadagnare, è probabile che un giovane preferisca restare a casa anziché dedicarsi a mansioni ritenute poco soddisfacenti. È un fenomeno che non va sottostimato e che, a mio modo di vedere, contribuisce almeno in parte a spiegare il basso impiego di giovani qualificati.
Tuttavia, esiste un secondo fattore che concorre in misura decisiva a spiegare questa preoccupante statistica. Siamo un Paese che crea pochi posti di lavoro per giovani professionisti qualificati. Infatti, mentre registriamo un incremento di occupati in un settore a basso valore aggiunto come il turismo, ne perdiamo nella produzione industriale e rimane poco significativo il numero delle persone impiegate nell’ambito dei servizi ad alto valore aggiunto (finanza, tecnologia, software), nei quali dovremmo investire. Non c’è però occupazione di qualità senza valore aggiunto. E non si genera valore aggiunto senza avere a disposizione risorse umane qualificate.
Al di là dei settori verso cui orientare investimenti pubblici e privati, è fondamentale il ruolo delle imprese private. In questo caso lo scenario è però tutt’altro che rassicurante. In un comparto manifatturiero dove la dimensione media dell’impresa italiana non supera i 5 addetti, è difficile attendersi che le Pmi tradizionali possano contribuire criticamente alla generazione di valore aggiunto. L’offerta di lavoro qualificato non potrà perciò che arrivare dalle grandi imprese multinazionali e dalle startup innovative di nuova generazione. Due tipologie di impresa sottorappresentate all’interno dell’attuale popolazione di imprese attive in Italia.
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