“Il merito non è una questione di genere”: ma solo il 2% dei capiazienda sono donne
Interveniamo sul caso Veronafiere e sulla giustezza delle legge sulle quote rosa, perché dove non arriva la pratica e la consuetudine deve arrivare una norma. L’Autorità nazionale anticorruzione: “esiste il problema di genere, ma quando ci sono i concorsi che premiano il merito questo tema non si pone. Nelle selezioni serve più trasparenza”

PADOVA. «La Fiera non aveva obblighi di quote rosa e la lista unitaria per gli organi sociali è stata composta pensando all'interesse aziendale, non ai consensi elettorali di qualche lobby».
Federico Sboarina, sindaco di Verona, difende così la scelta sul rinnovo del cda di Veronafiere, che tra l’altro non si ferma al board perché su quindici componenti tra cda, sette membri, collegio sindacale, cinque membri e organismo di vigilanza, altre tre posizioni, non una sola poltrona è stata assegnata ad una donna.
Una difesa quella di Sboarina che da sola conferma due cose: la prima, la parità di genere non è considerato un asset strategico (e la cosa non vale solo per la Fiera di Verona), ci riempiamo la bocca con la parola sostenibilità e poi in cinque secondi tradiamo uno dei suoi pilastri; la seconda, le quote rose servono, eccome se servono. Se infatti non c’è l’obbligo di una legge si fa un po’ quel che si vuole, ovvero si precipita in quella pratica d’antan per cui le donne possono accomodarsi tranquillamente fuori dalla porta della stanza dei bottoni.
La spa fieristica scaligera esce, infatti, dagli obblighi della Legge Golfo Mosca perché non essendoci un patto parasociale non è considerata a controllo pubblico, anche se i soci sono quasi tutti pubblici.
E dispiace leggere la posizione sulle quote rosa di una delle politiche che più di altre, per ruolo (è assessore regionale alle Pari Opportunità) e per longevità nel consesso politico regionale di alto livello, avrebbe da difendere la presenza delle donne in ruoli di leadership. Anche attraverso la giustezza di una legge, perché dove non arriva la pratica e la consuetudine deve arrivare una norma.
Stiamo parlando dell’Assessore Elena Donazzan, una leadership indiscussa nella sua parte di campo, appartenente all’unico partito politico, piaccia o meno, che ha una leader donna. Donazzan dalle colonne del Corriere del Veneto rivendica la sua contrarietà alle quote rosa: “Non si può fissare per legge il punto d'arrivo, e i fatti parlano da soli”. E precisa: “La bravura non è una questione di genere”. E su quest’ultima affermazione non si potrebbe essere più d’accordo, e appunto perché non è una questione di genere è statisticamente impossibile che le donne non compaiano in ruoli apicali. Perché delle due l’una: o non hanno merito o il merito non viene loro riconosciuto.
Ecco il motivo di una legge, che però vale solo per le public company (cioè per le società quotate, perché gli investitori, soprattutto all’estero, sulla parità di genere ci scommettono i propri quattrini, sanno che fa reputazione e dimostra visione nel business) e per le società a matrice pubblica. E la copertina di Linus del “In Italia non ci sono norme serie sulla conciliazione lavoro famiglia” è per l’appunto una scusante, che serve a coprire poco o nulla, a parte forse un po’ di senso di colpa.
Le quote rosa servono perché garantiscono la presenza di una minoranza (che non lo è, ma nel mondo del business sì) e serve anche una legge decente che tuteli la famiglia nella sua interezza (nessuno lo nega) e che permetta di conciliare i tempi di lavoro con quelli di cura.
Dove non ci fosse, le aziende possono integrare ciò che manca con modelli innovativi, quello che sta facendo Velvet Media o la piccola azienda veneta Wear me andrebbe ben studiato. Poiché dimostra che non è necessario avere le dimensioni di una Luxottica per creare un welfare affidabile e vincente per una azienda, che permetta di garantire quella conciliazione lavoro famiglia, usata come una scusa buona per tutte le stagioni innanzi ai mancati avanzamenti di carriera delle donne.
Ciò detto, è evidente che una legge da sola non sarai mai sufficiente ad infrangere il cosiddetto soffitto di cristallo. In Europa, scriveva la ricercatrice senior di Fondazione Nordest Silvia Oliva per il Top 100 di Nordest Economia, la componente femminile nel senior management è pari al 34%.
Salendo verso le posizioni apicali e focalizzandosi solo sulle società quotate i dati registrano la presenza del 30,6% di donne nei Cda e solo il 6,8% di presidentesse. Per quanto riguarda l’Italia i dati mostrano “una situazione in controtendenza con una riduzione della quota di donne Ceo dal 23% del 2020 al 18% del 2021, sotto la media europea”. Ma il dato da tenere in considerazione è il mancato raggiungimento della quota critica del 30%.
Le disposizioni normative hanno favorito sicuramente un miglior equilibrio di genere nelle società quotate portando la presenza di donne nei consigli di amministrazione dal 7,4% al 36,6% e quello dei componenti dei collegi sindacali dal 6,4 al 38,8% nel 2019. Dati ben distanti da quelli registrati nelle imprese non soggette alle cosiddette quote rosa in cui la presenza di donne nei Cda è passata dal 13,8% del 2011 al 17,7% nel 2019.
Nel corso di questi anni si è registrata una positiva significativa diminuzione di amministratrici “non family” (da 42,2 a 10,7%) riequilibrando il dato rispetto alla componete maschile (16,4) e una crescita della componente femminile tra gli eletti dai soci di minoranza.
“Rimane, tuttavia, marginale l’accesso reale ai ruoli apicali: nel 2019 sono solo 15 le amministratici delegate (pari al 2,1%) e solo 26 le presidentesse (3,2%). A livello di aree territoriali, nel Nordest non si registrano particolari differenze rispetto al dato nazionale, con un 34,4% di donne nei board delle quotate e del 17,7% delle non quotate” scrive Oliva.
Secondo un'elaborazione di Infocamere, nel Nordest le donne con cariche in azienda sono circa 300mila, ma raramente ricoprono posizioni di vertice. Limitando l'analisi ai ruoli effettivi di guida dell'impresa se ne contano oltre 31mila in posizioni apicali di società e quasi 91mila titolari di imprese individuali, per un totale di 122mila donne, meno di un terzo rispetto a oltre 396mila uomini con lo stesso tipo di carica.
La platea delle donne con ruoli apicali, con il passare degli anni, si sta progressivamente allargando sottolineano ancora da Infocamere. Negli ultimi cinque anni, infatti, la rappresentanza della leadership "rosa" nelle aziende del Nordest è cresciuta di quasi un punto percentuale, passando dal 22,7% al 23,6% delle poltrone di vertice.
Un aumento, però, che messo sulla bilancia che tiene conto di demografia (51% le donne sul totale dei veneti) e statistiche sui laureati (più della metà sono donne) è ben lungi dal rappresentare anche il bicchiere mezzo pieno.
Pur non avendo tra i propri poteri quello di vigilare sulle quote rosa nei Cda delle società partecipate, «come Anac abbiamo più volte sollecitato il Parlamento in audizione a favorire una presenza equa delle quote rosa, specie nelle nomine di tipo politico» è la posizione dell'Autorità nazionale anticorruzione sul tema.
«L'analisi dei dati dimostra che laddove è possibile procedere mediante procedure concorsuali il problema del rispetto del principio di genere non si pone. Il problema, invece, esiste ed è molto rilevante nelle ipotesi in cui non si procede mediante procedure concorsuali».
«Abbiamo chiesto» fa sapere l'Autorità presieduta da Giuseppe Busia «di inserire qualche elemento che caratterizza le procedure concorsuali, tese a valorizzare il merito, anche laddove il concorso non può essere utilizzato come strumento di selezione e deve prevalere la dimensione legata alla legittima decisione politica. L'elemento che si può inserire in tali casi per favorire anche la parità di genere è il principio di trasparenza».
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