Il saper fare a scuola: la sfida di Harvard e il modello svizzero

La via la traccia l'America ma il dibattito appartiene al made in Italy e alla capacità di formare i giovani con nuovi percorsi tecnici. Ne parla Robert Schwartz stamani a Padova al fianco di Stefano Micelli (Fondazione Nord Est)

VENEZIA. All’origine di tutto c’è una ricerca universitaria: 53 pagine dense di dati dal titolo Pathways to prosperity: sentieri per lo sviluppo. Ovvero: quali sfide intraprendere per formare i giovani. Siamo in America, nel 2011 quando Robert Schwartz, responsabile del settore per le politiche educative della Harvard University, analizza in un rapporto la strategia formativa Usa degli ultimi vent’anni: i suoi tentativi di alzare costantemente il livello scolastico, puntando alla laurea dei suoi giovani, con conseguente svuotamento della classe media: quella che si posiziona tra il “good job”, da colletto bianco, e il “bad job” da McDonald’s.

E’ così che si apre un ampio dibattito in America sul valore della formazione tecnica in una società in profonda trasformazione. Mentre il presidente Obama punta sul reshoring, ovvero il rimpatrio della manifattura per ricostruire l’industria lontano dalla Cina. Ma c’è un problema sociale maggiore, forse, di quello economico: dalle analisi di Schwart emerge che solo il 50% dei giovani arriva alla laurea in America. E che l’indebitamento dei ragazzi all’università (in un sistema privato-pubblico molto costoso) è ben più alto di quello accumulato dalla carte di debito. Ma si può avere un buon lavoro anche senza la laurea? Ce lo stiamo chiedendo anche in Italia, spiega Stefano Micelli direttore della Fondazione Nord Est e spirito della rivoluzione artigiana e della nuova manifattura. Non è un caso, dunque, che oggi Schwartz sia relatore e ospite alla presentazione del Rapporto Nord Est 2016 a Padova al fianco di Micelli.   


“Il dibattito sul trasferimento e la socializzazione dei saperi che hanno fatto la fortuna della manifattura francese e di quella italiana ha radici lontane. Nella maggior parte dei casi la discussione si è focalizzata sulla difficoltà a promuovere efficacemente percorsi scolastici in grado di incontrare il favore dei giovani” conferma Micelli. “Dopo la scuola media inferiore, molti studenti (e le loro famiglie) rimangono scettici di fronte alla possibilità di investire sulla formazione tecnica e professionale. Non è un caso che ancora oggi, nonostante i risultati economici ottenuti da tanta manifattura di qualità, molte imprese sono in difficoltà nel reclutare una nuova generazione di specialisti in settori chiave del made in Italy”.


Lo stesso problema che ha l’America, conferma Schwartz: “Una manodopera in età avanzata in aziende incapaci di attrarre giovani”. Per questo Pathways to prosperity non è rimasta una ricerca ma ha avuto così tanta eco da diventare un movimento educativo con un network di 12 Stati che ha coinvolto imprenditori, associazioni di categoria e banche come Jp Morgan Chase.


Schwartz non si limita a riflettere sul rilancio del vocational traning negli Stati Uniti, ovvero delle competenze del saper fare, grazie a una nuova generazione di community college inseriti nelle diverse comunità locali. “Oggi c’è un gran bisogno di professionalità in nuovi e innovativi settori come la manifattura additiva, l’Ict e tutto il settore della salute. Nuove professioni dove non esiste una formazione adeguata che possono partire da un avviamento al lavoro anche in giovanissima età”.  Il docente parla di un percorso formativo generalista, su modello svizzero, che permetta al giovane di passare da un’attività pratica agli studi teorici liberamente. “Oggi in Svizzera il 70% dei 15enni combina 3 giorni di attività pratica con 2 giorni di scuola,” precisa Swartz.

“Ma i sistemi non si possono copiare – precisa il docente – vero è che confrontarsi con problemi di natura pratica è un viatico formidabile e riduce la disoccupazione”. Ecco dunque la virata verso carriere “miste”, anche dopo la formazione scolastica. Anche qui la Svizzera è un esempio perché ha creato delle vere proprie “passerelle” fra percorsi di carriera diversi. “Argomentazioni molto utili alla nostra Italia – conferma Micelli – per tracciare le linee guida per una buona scuola”. Ma servono degli attori: il Pubblico, gli educatori, sindacati, imprenditori e perfino enti intermedi, come organizzazioni no profit, in grado di creare i link e nuove reti relazionali. Se la scuola può programmare nuovi corsi e gli imprenditori ospitare i giovani in azienda, serve chi partecipi attivamente a incrociare i bisogni, partendo dall’analisi delle competenze dei giovani. La sfida? Una nuova mobilità sociale.

@eleonoravallin
 

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