Il vino dealcolato fa litigare i produttori. Polegato e Puiatti: «Mai». Boscaini (Federvini): «Sì tranne i Doc»
L’Unione europea porta avanti una proposta quanto mai discussa. Il “pioniere” trentino Tait: «Vi spiego come lo faccio e perché rappresenta il futuro»
TREVISO. È un tema che tocca proprio il cuore, prima ancora di tirare in ballo tradizione e denari, passato e futuro, passione e affari. Il vino dealcolato, che cerca di ritagliarsi uno spazio normativo e di mercato, spacca il mondo dei produttori: da una parte i possibilisti, anche esplicitamente favorevoli – e se tra loro c’è Sandro Boscaini, presidente di Federvini, si capisce il peso specifico dell’endorsement – dall’altra i barricaderi, che del loro «mai» fanno quasi una questione filosofica.
La premessa
La Presidenza del consiglio dei ministri dell’Unione Europea sta valutando la «dealcolazione»: la proposta prevede di autorizzare, nell’ambito delle pratiche enologiche, l’eliminazione totale o parziale dell’alcol con la possibilità di aggiungere acqua anche nei vini a denominazione di origine. Se dovesse diventare legge, potrebbe riguardare 14 Docg, 29 Doc e 10 Igt in Veneto, ossia circa 10 milioni di ettolitri per un valore di export da 2, 2 miliardi. Domani a Bruxelles è previsto un altro incontro sul tema. Da Coldiretti qualche giorno fa sono arrivate le prime, durissime reazioni: «L’introduzione di queste pratiche metterebbe a rischio l’identità del vino italiano ed europeo», ha tuonato il presidente Ettore Prandini.
Masi, Federvini: sì, ma non le denominazioni
«È una polemica un po’sfuggita di mano, perché qui non si tratta di annacquare il vino – dice Sandro Boscaini, presidente e amministratore delegato di Masi Agricola Spa, azienda radicata in Valpolicella, nonché presidente nazionale di Federvini – è un bene che l’Unione Europea abbia preso in mano questo dossier che girava da un po’per normare la dealcolazione all’interno della rigorosa legge che regola il vino e i vigneti, piuttosto che esca da questo ambito e si faccia altrove, e male».
Il concetto, secondo Boscaini, è chiaro: mettiamo a punto regole chiare e cogliamo questa opportunità. «Va definita una legge che chiarisca anche come lo chiamo, perché se tolgo l’alcol o lo abbasso per esempio a sei gradi non posso più chiamarlo vino. Ma non ha senso togliersi quest’opportunità di avere un prodotto serio, fatto secondo regole rigide e chiare, e con le nostre uve». Un discorso, secondo Boscaini, che però «deve riguardare il vino da tavola, non certo le denominazioni Doc e le indicazioni geografiche, è fuori discussione. Secondo me, e parlo anche a nome di Federvini che rappresento, il vino resta un prodotto con una componente di alcol. Il punto è creare prodotti che possano incontrare mercati nuovi come quelli arabi che in cui non si bevono alcolici per motivi religiosi».
Il produttore: questo è il futuro
Chi già produce un’alternativa dealcolata al vino è Michele Tait di Lavis, Trento. E l’ha chiamata proprio Alternativa: «Si parte da vino “vero” – spiega – non si tratta dunque di succhi di frutta o mosto non fermentato, e con un processo fisico/meccanico tramite una membrana permeo-selettiva si toglie l’alcol che finisce nell’acqua al di là della membrana. L’idea me l’ha data una decina di anni fa un mio amico che fa parte di un gruppo religioso che si chiama Rosa Christi: perché non fai un vino senza alcol che possiamo bere anche noi? , mi ha chiesto, quasi per scherzo. Io l’ho presa per una domanda seria perché ne ho intuito le potenzialità. E lui è diventato il mio primo distributore».
Nel 2018 la società di Tait, Princess Srl, ha prodotto 40 mila bottiglie, salite a 70 mila nel 2019 e 110 mila nel 2020. «Quest’anno la richiesta è più del doppio, credo riuscirò a produrne 180-200 mila. Esporto in tutto il mondo ma vendo anche in Italia soprattutto mediante l’e-commerce». I prezzi? «Dagli 8 ai 12 euro a bottiglia. E reclamizzarlo non è facile, non potendolo chiamare vino, neanche vino dealcolato. Spero che un giorno si possa, ci darebbe una grande spinta. Sono convinto che questo sia il futuro, tra dieci anni sarà un mercato da milioni di bottiglie. Io sono anche certificato Halal per i paesi musulmani, dal Kuwait all’Arabia Saudita. Ma non ci comprano solo per motivi religiosi: anche per salute».
Tait lavora nel settore dei servizi enologici, come il filtraggio: non è un enologo, si definisce un autodidatta che ha studiato e fatto corsi di formazione. Il vino che poi viene dealcolato lo compra in Veneto, almeno il bianco: Pinot grigio per i fermi e gli spumanti, che lavora lui. Per i rossi, invece, la base è Montepulciano d’Abruzzo, «ottimo rapporto tra qualità e prezzo». Chi glielo vende non storce il naso? «No, anzi, stiamo studiando etichette in società. E il vitigno d’origine, affinando le tecniche di dealcolazione, si sente». E questa polemica sollevata da Coldiretti per il vino snaturato e annacquato? «Hanno preso un granchio, c’è disinformazione. Non tutti i processi di dealcolazione aggiungono acqua».
Puiatti, Villa Parens: il no filosofico
Ne fa una vera questione di filosofia morale applicata al vino, Giovanni Puiatti. Con la sua Villa Parens di Farra d’Isonzo, Gorizia, dice, «parto da concetti come culture, civiltà, emozioni, bilanciamento, equilibrio. Meno alcol e niente legno è una filosofia che portava avanti mio padre già cinquant’anni fa». Quando gli chiediamo esplicitamente cosa pensi del dibattito sul vino dealcolato, risponde: «Dell’annacquamento?».
E anche se sottolineiamo che chi lo produce sostiene che l’annacquamento non c’entri, Puiatti non si smuove di un passo: «Sarò considerato un talebano, o un vecchio, ma per me il vino va reso attuale senza fargli perdere la sua identità, senza masturbare la natura. Possiamo essere creativi, non creatori. Se qualcuno vuole fare un prodotto dealcolato, abbia almeno il coraggio di non chiamarlo vino, di dargli un altro nome».
Anche Federvini però è possibilista, con un discorso su nuovi mercati da aprire. «I Paesi arabi, se ci vogliono conquistare con la loro cucina, non la stravolgono – replica Puiatti – noi non possiamo raccontare la nostra storia modificandola. Divido il mondo del vino tra missionari e mercenari». E non è necessario specificare da che parte si schieri lui.
Polegato, Astoria: non c’entra nulla col vino
Posizione simile anche per Filippo Polegato, seconda generazione Astoria. L’azienda trevigiana è stata tra gli apripista in direzione di un vino a minor gradazione alcolica, come il Prosecco a 9, 5 gradi, e di succhi d’uva a zero gradi. «Ma il vino dealcolato non c’entra nulla con il nostro concetto di vino a gradazione minore, che produciamo utilizzando uve meno mature e temperatura di vinificazione più bassa per controllare i lieviti mangia-zucchero – sottolinea Polegato – Non facciamo giri strani, escamotage o robe strane, né annacquamenti».
L’acqua non c’entra, dice chi lo fa. «Che sia con acqua oppure no, non ci piace né il meccanismo, né la proposta confusionaria – replica Polegato – Non si sposa con la nostra filosofia di qualità. Noi abbiamo lanciato il Prosecco 9.5 una decina d’anni fa, sull’onda della discussione sulle stragi al volante. Abbiamo pensato a un vino più leggero per un pubblico giovane, che si avvicini a questo mondo con la testa. Ma è un vino a tutti gli effetti, il dealcolato non c’entra nulla con tutto ciò».
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