Antonibon: le malte, i "capogiri" e le fornaci ottocentesche che creano la magia della ceramica di Nove

VICENZA. Il capogiro viene da "malta". E' la parola pronunciata davanti all'ottocentesca fornace che troneggia come una torre di due piani in un'ala del museo Antonibon, risplendente di ceramiche ammirate ogni anno da migliaia di visitatori.
Perché, una volta preso atto delle otto "bocche", quattro per piano, da cui venivano introdotte le pile di piatti da cuocere, lo sguardo potrebbe perdersi a lungo, come in cerca di un pezzo mancante. osservando il vano ad altezza d'uomo da cui si accede all'interno della struttura.

Almeno finché la bionda e gentile signora Giuliana Barettoni, della famiglia che da oltre un secolo ha acquisito il marchio Antonibon, non tira in ballo la malta.
"La usavano per incollare i mattoni della porta che chiudeva integralmente questo passaggio – racconta – in modo che la fornace potesse raggiungere il calore necessario e poi mantenerlo senza dispersioni per i quindici, venti giorni di lavorazione necessari. Alla fine, una volta spento il fuoco, si demoliva la porta per ricominciare tutto dall'inizio".
Ecco chiarirsi gli effetti benefici del capogiro da cui si è colti gustando un racconto del genere. Deriva dalla certezza di avere davvero varcato la soglia del tempo, oltrepassando la soglia di questo museo, disseminato lungo la grande fabbrica addossata al centro di Nove, il paese in provincia di Vicenza dove la famiglia Antonibon iniziava ad allestire forni nel 1685.

Perché in questi sonnacchiosi saloni, fra scaffali di uccelli dipinti e regali "antipastiere" con cui servire un pranzo intero, sparso dentro i ventuno piattini fusi in un unico pezzo, si è afferrati da una Bellezza multiforme. Qualcosa che non rifulge solo nei servizi da tavola dove ogni piatto riproduce il particolare di una Venezia dipinta nel '700 dal grande "vedutista" Francesco Guardi.
A rendere la visita ancora più densa e circostanziata è la percezione della Storia trascorsa sia dentro questa fornace periodicamente murata e demolita, sia al di fuori di essa, nel laboratorio dove per quei quindici, venti giorni di lavorazione, gli operai restavano a vegliare sul fuoco, facendo filò, o ricevendo la visita delle mogli, che affidavano a tanto calore i panni da asciugare in fretta.

Emozioni e abitudini provate da uomini e donne in molti sensi vissuti "prima di noi", richiamando il titolo di un romanzo familiare appena pubblicato da Giorgio Fontana. Come nelle pagine di quella saga, è un'immersione nel passato, ovvero qualcosa di più di una semplice "visita", a rendere unica l'esperienza proposta dal museo Antonibon.
Con buona pace, almeno per ora, di Amazon, colosso globale che sembra non disdegnerebbe uno "store" virtuale di queste ceramiche, tuttora prodotte dall'azienda operando su migliaia di stampi realizzati a partire dalla fine del '600 (compreso quello dell'antipastiera, in vendita a 450 euro).
"L'approdo online è inevitabile, soprattutto dopo che in Paesi come gli Stati Uniti o la Russia non esistono più i negozi dove trovare i nostri prodotti" spiega Giuliana Barettoni, che alla pari con le sorelle Alessandra e Roberta rappresenta la quarta generazione della famiglia proprietaria.
"Ma per il momento preferiamo fare da sole, anche in rete" aggiunge dopo averci indicato zuppiere le cui ricche e complesse fioriture rimandano agli anni della seconda guerra mondiale. E' il periodo in cui le maestranze cesellano all'infinito ogni pezzo, poi stoccato in magazzino, pur di dimostrare che la fabbrica, avendo commissioni da rispettare, non può essere requisita per scopi bellici. Sono memorie che accentuano il fascino domestico di sale abitate per buona parte del secolo scorso.

Da quando, nel 1912, l'avvocato di Schio Lodovico Barettoni diventa unico proprietario delle "Ceramiche Antonibon" in seguito all'uscita di scena della famiglia fondatrice. Dopo di lui spetta al figlio Guglielmo entrare in prima persona nella storia del marchio di cui, oltre agli stampi, resta una sola ceramica orginale, una testa di Maria Vergine esposta nel museo.
Ingegnere chimico, ma anche atleta affermato, che nel 1924 manca di un nonnulla il titolo italiano di salto in alto, Guglielmo Barettoni, ricordato a Nove come primo sindaco dopo la Liberazione, coinvolge profondamente nella gestione della ditta la moglie Zenobia Bussandri, rampolla di una nota famiglia di mobilieri bassanesi.
I due coniugi trasformano la fabbrica nell'atelier creativo evocato nell'esposizione dai divertenti teatrini di ceramica firmati Romano Carotti, uno degli artisti giunti alla notorietà partendo da queste fornaci, come anche Pompeo Pianezzola, Rufo Giuntini e quel Settimo Manera ricordato fra i conservatori della gipsoteca di Possagno, dedicata all'opera scultorea di Antonio Canova.

Quanto a modi e obbiettivi, è una gestione coniugale che si riproduce perfettamente nella generazione successiva, rappresentata dal figlio di Guglielmo, chiamato Lodovico in omaggio al nonno, e da sua moglie Vania Borella Di Torre.
Oggi tocca alle loro tre figlie, a cui fanno riferimento dipendenti e collaboratori dell'azienda, perpetuare la speciale nobiltà di un marchio che nel 1732 era già così affermato da meritarsi vent'anni esentasse stabiliti dalla Serenissima. Il merito era stato quello di avere prodotto e messo in commercio le ceramiche blu "alla maniera di Delft", senza più obbligare i veneti ad acquistarle nei Paesi Bassi. Tre secoli fa, ma sembra oggi, dentro questo museo dove la Storia suscita benefici capogiri.
LA SCHEDA
Il museo delle "Ceramiche Antonibon" si trova al civico 3 di via Molini, che dà sull'incrocio principale del centro di Nove, in provincia di Vicenza. La fabbrica, che è visitabile tutto l'anno, dopo avere telefonato per l'appuntamento allo 0424/590013, è regolarmente aperta durante manifestazioni come la Festa della Ceramica, in programma a Nove ogni settembre, e le giornate del FAI, la fondazione per la tutela del patrimonio artistico italiano. In occasioni del genere il museo Antonibon registra anche cinquemila visite al dì.
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