Crisi, fusioni, sostenibilità: viaggio nel distretto dello Sportsystem che si trasforma

La pandemia fa cadere le esportazioni del 16 per cento, imprese costrette ad accelerare la propria evoluzione. Di prodotto, di ricerca e anche di struttura finanziaria

MONTEBELLUNA - «Ci stiamo provando», dice Paolo Bordin, «perché in due è meglio che da soli». Per raccontare cosa sta succedendo nel distretto montebellunese dello Sportsystem (calzature, attrezzature, abbigliamento sportivo) partiamo da qui, prima che dai numeri. Perché quello dell’amministratore delegato della Aku, marchio di punta nelle calzature da montagna, è un progetto che potrebbe diventare un paradigma: fondersi con uno dei concorrenti «per sfruttare sinergie produttive e distributive».

Un po’ come Stellantis tra Fiat e Peugeot? Bordin sorride alla disparità dimensionale del paragone, ma ammette che l’idea è quella. Già partecipata al 50% dal 2009 da un socio canadese, Genfoot Inc, ora Aku tenta questa scalata in coppia (ma non dice con chi) ai mercati. È l’unico modo per sopravvivere, tra Scilla e Cariddi di globalizzazione e pandemia?

Galliano Bordin, fondatore della montebellunese Aku, recentemente scomparso, e il figlio Paolo, che oggi porta avanti l'azienda
Galliano Bordin, fondatore della montebellunese Aku, recentemente scomparso, e il figlio Paolo, che oggi porta avanti l'azienda

I numeri

Export in calo del 16% nei primi nove mesi del 2020, con vendite all’estero scese sotto il miliardo di euro: l’anno della pandemia lascia morsi profondi sul distretto. Un calo generalizzato, che ha visto bruciare 132 milioni per le calzature e 38 milioni per gli articoli sportivi. C’è chi sta peggio, a guardare per esempio il distretto delle calzature del Brenta, che viaggia su cali vicini al 25%.

I dati sono della direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo. Nel 2018 il giro d’affari complessivo del distretto montebellunese aveva toccato i 2,83 miliardi di euro, in crescita dai 2,76 dell’anno precedente. In totale sono 571 le imprese attive, la maggior parte nella produzione di calzature (213), seguite da studi di design (132) e produttori di componenti. Gli addetti complessivi sono 6.373: una persona su tre a Montebelluna lavora nella filiera del distretto.

Patrizio Bof, presidente dell'Associazione dello Sportsystem e dell'Imprenditoria del Montebellunese e dell'Asolano
Patrizio Bof, presidente dell'Associazione dello Sportsystem e dell'Imprenditoria del Montebellunese e dell'Asolano

La situazione

«Il calo è una media tra chi ha sofferto di più, per esempio chi è legato allo sci e ha visto saltare la stagione, e chi invece è riuscito anche a crescere, nell’outdoor», dice Patrizio Bof, presidente dell’Associazione dello Sportsystem. «Chi rimane coi magazzini pieni ha poi impatti dal punto di vista occupazionale, inevitabili, con un ricorso quasi totale alla cassa integrazione, unica arma per resistere. I negozianti confidano nei ristori, ma ci vorrebbe anche l’obbligatorietà di pagare i fornitori. Altrimenti per le nostre aziende la crisi finanziaria è dietro l’angolo».

Finanza e sinergie

Piccoli e poco patrimonializzati, seppur con marchi forti: una condizione diffusa, e la pandemia ne ha scoperchiato le criticità. Dietro ai nomi dei big, da Geox a Tecnica (anche il gruppo di Giavera ha aperto il proprio azionariato nel 2017, cedendo il 40 per cento a Italmobiliare di Carlo Pesenti) passando per Rossignol Lange, Fischer, Dalbello, Scarpa, Grisport, ci sono aziende più piccole che devono trovare appigli stabili. È la terra orfana di Veneto Banca, anche se Intesa cerca di rimettere assieme i pezzi (a giorni sarà annunciato un piano di finanziamenti dedicato).

È dei giorni scorsi l’accordo tra Garmont, altro marchio di punta nel trekking (20 milioni di fatturato), e Riello Investimenti: il fondo veronese ha rilevato il 65% delle quote dell’azienda di Vedelago. «Unione finalizzata a crescere tramite nuovi accordi commerciali e acquisizioni», dice il presidente Pierangelo Bressan. Per Bof si tratta di «un modello che può essere replicabile, molto interessante».

E c’è chi guarda oltre, tornando a Paolo Bordin e la sua Aku: fatturato 2020 a 22 milioni in leggero calo (-4%), quota export che supera l’80%, oltre al socio canadese («perché avere una massa maggiore è utile»), ora cerca di perfezionare questo «progetto di sinergia con un concorrente diretto, perché in due è meglio che da soli». Sembra un’eresia, in un distretto dal campanilismo spinto, ma è un segno di cambiamento storico. «La mentalità piccina, più che piccola, è stata il male peggiore», dice Aldo Durante, memoria storica, «ha fatto perdere molte occasioni di aggregazione».

Tra nearshoring e sostenibilità

Ha ancora un futuro un distretto a forte specializzazione, a fronte di numeri che mostrano come la sola Geox pesi per circa il 40% del fatturato complessivo? Sì, ce l’ha, dice Bof, «aumentando la diversificazione della produzione, penso per esempio alle sneakers d’alta gamma in cui ci sono nomi come Gucci e Chanel. Prodotti di alta qualità e sostenibilità, questo è il futuro», preconizza Bof.

Nella parentesi della corsa alla delocalizzazione, molti si sono scottati con una qualità di produzione non adeguata e tempi di risposta al mercato troppo dilatati. Come sarà tra vent’anni? Alla domanda Bordin risponde che «aziende come la nostra potranno stare sul mercato perché controllano tutta la filiera da vicino, noi produciamo il 15% circa, top di gamma, a Montebelluna (fa lo stesso Diadora a Caerano, ndr), il resto tra Serbia e Romania. E perché hanno la sostenibilità nel dna, il mercato oggi lo pretende».

E gli esempi sono molti, da Tecnica che progetta gli scarponi da sci pensando già al riciclo fino a Scarpa che utilizza bio-plastiche dalla pianta di ricino. E il futuro è anche nelle nuove professionalità, anzi, in quelle vecchie con strumenti nuovi: giovedì, ad esempio, l’Accademia creativi del distretto organizza un webinar sulla stampa 3D nella prototipazione. Il domani è sempre passato di qua.

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Alberto Zanatta, Tecnica: «Siamo quasi un’isola felice e ora riposizioniamoci verso l’alto»

Rinnovamento continuo e diversificazione sono nel Dna di questa terra di calzolai diventati imprenditori globali. Alberto Zanatta è uno degli uomini simbolo dello Sportsystem. Il Gruppo Tecnica, che porta avanti sul solco di papà Giancarlo, ha segnato la storia. «Il calo dell’export del 16%? Un anno fa temevo si potesse toccare il –30%. Siamo quasi un’isola felice, anche con la fortuna di avere utilizzatori individuali, peno penalizzati dai divieti dovuti alla pandemia: trekking, montagna, bicicletta soffrono meno rispetto al calcio, per esempio. E penso che i numeri di fine 2020 segnino un parziale recupero».

Alberto Zanatta
Alberto Zanatta

La crisi darà un colpo d’acceleratore a digitalizzazione e sostenibilità?

«Sicuramente – dice Zanatta – chi voleva percorrere quella strada in qualche anno, ora lo deve fare in pochi mesi. Soprattutto sulla circular economy, è il mercato a chiederlo: il nostro consumatore è attentissimo, chi va a camminare in montagna o corre in bici ha cura del proprio “campo di gioco” e vuole prodotti meno impattanti e più rispettosi dell’ambiente».

Questo vi aiuta a riposizionarvi più in alto, anche come fascia di prezzo?

«Sì, perché chi vuole qualità e sostenibilità è disposto a pagarle, e vuole anche dialogare con noi, informarsi, sapere che materiali e processi utilizziamo».

Lowa, uno dei vostri marchi, offre un servizio di cambio delle suole: non si butta più via il vecchio scarpone.

«Forniamo questo servizio per 40 mila clienti l’anno, lo apprezzano molto e ci ringraziano, ci mandano persino le foto delle escursioni che fanno con i loro scarponi ai quali sono affezionati. Quella che offriamo è una vera rigenerazione del prodotto, dalla suola ai lacci, passando per il packaging: lo restituiamo come nuovo. Certo, ha dei costi, ma è un servizio che trova sempre più gradimento: ci investiamo, crescerà ancora».

Fusioni e acquisizioni diventeranno l’ordinario nel distretto di Montebelluna?

«Sì, su questo fronte si muoveranno in tanti, sinergie e partnership sono e saranno fondamentali. Dopo questo sconquasso ci saranno brand e aziende forti, altre che ne usciranno indebolite».

La vostra Tecnica?

«Eravamo preparati e con le spalle grosse, ne usciremo ancora più forti e con prodotti sempre più innovativi. Investiamo su prodotti e servizio: la sostenibilità è un concetto che va rivolto anche alle persone».

Il futuro del distretto è sempre più tecnico e meno rivolto alle scarpe da città?

«Lotto e Diadora strizzano l’occhio a quel settore, Geox è una straordinaria anomalia e resterà forte, e questo è un bene per tutto il territorio perché ne traina la crescita dal punto di vista manageriale e della formazione, per esempio, come fanno Benetton e Replay nell'abbigliamento, ma qui nel distretto il futuro resta legato al tecnico».

Le professionalità si trovano?

«Non è facile ma non possiamo perdere competenze legate a manualità e know-how tradizionale. Non servono miglialia di persone, ne bastano poche. Ma qualificate».

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La redazione
Immagine della campagna Moon Boot dal sito ufficiale del brand

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Aldo Durante: «Superare il campanilismo travestito da "piccolo è bello", già troppe occasioni sprecate»

Piccolo è bello, si diceva una volta, ma qui il rischio è di confondere questo mantra con un individualismo deleterio. Aldo Durante, ex presidente della Fondazione museo dello scarpone, cuore e motore del distretto dello Sportsystem montebellunese, vera memoria storica di questo fenomeno imprenditoriale collettivo, non si morde la lingua quando è tempo di criticare. Ama questo distretto, è tra i suoi padri, e forse ciò gli rende ancora più indigesto analizzare le occasioni sprecate.

Aldo Durante
Aldo Durante

Durante, questa crisi rischia di essere pesante per aziende con marchi forti ma spesso piccole e poco capitalizzate?

«In situazioni estreme, lo diventano anche i problemi. Che non sono nuovi. È ovvio che un piccolo contadino, se la siccità si prolunga, va in difficoltà: una volta vendevano la terra e diventavano mezzadri. Lo stesso vale per i calzolai. Ora le piccole aziende o hanno un prodotto specializzato, favola che si racconta sempre, oppure entrano per forza di cose in un discorso più vasto. Il territorio produce il 75 per cento dei marchi mondiali del settore, e il restante 25 per cento usa la nostra tecnologia. E in quarant’anni si riesce a dilapidare tutto: la malattia del piccolo è stata letale, e lo diventerà sempre di più per chi non ha le spalle protette».

Crisi utile per cambiare?

«Già la prima grande crisi dello scarpone da sci nel 1980 ha costretto a diversificare, lo hanno fatto tutti, molti però rimanendo troppo piccoli: questo è stato l’errore principale».

Colpa di chi?

«Degli imprenditori stessi, delle associazioni di categoria, delle istituzioni pubbliche, anche quelle locali. Non tanto nel dare soldi, quanto nel cambiare mentalità. Credo che tutti i distretti, tra l’altro ho scritto io la prima guida, se non hanno capacità di creare delle sinergie nella ricerca o nella produzione sono destinati a diradarsi, rimangono pochi marchi. Si paga uno scotto culturale, la mentalità piccina più che piccola di chi se può pensa solo a se stesso, e crede che collaborare sia un’inutile perdita di tempo».

Prima ha usato un termine forte, “dilapidato”: non è troppo? Il distretto è ancora vivo, paga la crisi da pandemia ma sta reagendo.

«Allora diciamo che ha perso molte occasioni. Come all’inizio degli anni Duemila, quando c’era un progetto di mettere assieme tutti i piccoli marchi per creare un grande gruppo diversificato, un po’ come ha fatto Nordica e Tecnica. Grande occasione persa a causa dell’individualismo».

Che futuro vede?

«Ci sono diverse possibilità. Una è che la competenza di Montebelluna, per grazia di Dio, non sparisca, ma diventi al servizio delle grandi multinazionali: piccoli e medi marchi entreranno in gruppi grossi che hanno in mano il marketing, la ricerca».

Quanto rimarrà qui? La testa del distretto, fondamentale si diceva nel boom della delocalizzazione, rimane?

«Nessun fenomeno dura in eterno. Quello della testa è un discorso ambiguo. La testa, senza un po’ di mani, è vuota. Pensiamo anche con le mani, con i sensi, con la vista. Perdere il controllo del fare è rischioso, le aziende più scafate lo controllano ancora».

La formazione per supportare tutto ciò c’è?

«È quello che cercavamo di fare già negli anni Ottanta, con il Museo al centro del progetto. Ma torniamo al discorso dell’individualismo, delle parrocchiette».

 

Contraccolpi occupazionali di questa crisi?

«Le crisi le abbiamo già viste, qui e in altri distretti. Ma una volta c’era il salvagente del doppio o triplo reddito: ogni operaio aveva anche il suo pezzetto di terra, e spesso anche un secondo lavoro in nero. Se perdeva il lavoro in fabbrica, non faceva la fame. Nel 1979, Newsweek citava il distretto di Montebelluna come quello a più alto reddito nel mondo. Oggi ho la sensazione che non sia più così, ma che dobbiamo tornare a una doppia economia: una di sussistenza, che sia artigianale o agricola, e una globale. I più disperati oggi sono quelli che sanno fare un solo lavoro».

Un’azienda del distretto che le piace, che potrebbe essere citata a modello?

«Il calzaturificio Scarpa, che pur essendo a conduzione familiare ha saputo innovare, superare mille vicissitudini, mantenere standard di ottimo livello».

Sandro, la sorella Cristina e il cugino Davide Parisotto del calzaturificio Scarpa
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