Dalla bigiotteria agli abiti ecco Niù, il brand di moda etico made in Fvg

La storia di Serena Cibischino, capace di inseguire un sogno e trasformarlo in impresa. «Non siamo un’azienda di fast fashion. Produrre prodotti che durano è del resto una scelta ecologica», che caratterizza anche il packaging, i cartellini e gli appendini

Maura Delle Case

L’azienda si chiama Niù ed evoca, già nel nome, qualcosa di nuovo, inatteso, capace di impressionare la retina dell’occhio. Lo fa con l’uso del colore e delle stampe l’azienda di Serena Cibischino, una delle poche realtà friulane (e forse l’unica) capace di ritagliarsi uno spazio nel circo chiuso della moda, alle fiere che contano, e di restarci con diritto per un quarto mezzo secolo.

Merito del mix unico che definisce l’identità di quest’impresa, che ha il suo quartier generale in uno dei simboli della manifattura femminile udinese, la Tessitura Spezzotti. E’ lì, Via Paparotti, alla periferia della città, in un grande loft ristrutturato per raccontare l’essenza di Niù, che ogni giorno lavorano 26 dipendenti più due soci - Serena e il fratello Bruno -, dove ogni anno vengono ideate due collezioni - una primavera/estate, l’altra autunno/inverno - per un totale di oltre 500 articoli tra le 2, di cui l’80% capi di abbigliamento, dove si genera un fatturato che nel 2022/2023 (il bilancio è stato chiuso ad aprile) ha prodotto 10,5 milioni di euro, in crescita di circa il 20% anno su anno, realizzato al 68% in Italia.

«Ma abbiamo appena preso un nuovo direttore commerciale - fa sapere la Ceo Serena Cibischino - e contiamo di crescere bene anche all’estero, di consolidare anzitutto l’Europa per poi guardare oltre. A fine agosto saremo in fiera a Shangai».

Serena e Bruno
Serena e Bruno

Originaria di Torino, Cibischino approda in Friuli a 30 anni, al seguito del marito. «Lo incontro nel 1992 in America. Lui studiava inglese alla Boston University, io lavoravo per uno stilista libanese americano. Sono rimasta lì due anni, poi l’amore mi ha portata in Friuli. Che fare? Nel campo della moda non c’era nulla, mi sono adattata a fare l’agente di viaggio».

Complice un incidente sulla neve, Cibischino si licenzia dopo poco e fortuitamente incrocia la possibilità di fare un corso all’Ires per donne imprenditrici. Non si fa scappare l’occasione. «Dovevo stendere un business plan. Eravamo 20 donne. Chi è passata ha avuto accesso ai finanziamenti pubblici. Alla luce di quell’esperienza, che per me è stata fondamentale, ai giovani dico: Osate, perché questa è una Regione che aiuta».

Siamo nel 1999. «Nasce mio figlio Giacomo e io apro Niù, la mia azienda. La prima è una collezione di bijoux, presentata su un abito vestito da un manichino» racconta ancora la Ceo sfogliando con cura il look-book di quella prima collezione. Poche pagine con foto fai da te che conquistano uno dei più gettonati show-room milanesi, lo Studio Bonini. Da lì partono le vendite e alla prima “vetrina“ se ne aggiungono altre.

Serena e Bruno iniziano a poter contare su altre forze. Ai due si uniscono una compagna di corso all’Ires e un’ex buyer di Arteni, che inizia a vendere Niù in giro per l’Italia. «All’inizio facevamo bijou e sciarpe con materiali poveri e linee essenziali - ricorda l’imprenditrice -, un po’ filo giapponesi. Influenzati dal bello che grazie a nostro padre, manager dello storico Gruppo finanziario tessile, avevamo visto e toccato fin da piccoli».

«Il salto ulteriore lo dobbiamo alle banche - riconosce l’imprenditrice -. Non avevamo capitali da investire e se abbiamo potuto crescere e prima ancora pagare gli stipendi, è stato grazie alla fiducia che gli istituti di credito, senza alcuna garanzia da parte nostra, ci hanno dimostrato».

I primi fondi dell’Ires, la fiducia delle banche, l’esperienza internazionale maturata nel mondo della moda da Serena e un pizzico di fortuna portano Niù, nel 2002, ad affacciarsi alla più grande fiera della moda al mondo: Parigi. Il resto lo raccontano i numeri: «Oggi contiamo su 17 agenzie di distribuzione, 11 in Italia le altre all’estero, quasi 500 negozi nel nostro Paese, 750 compresi quelli in giro per il mondo».

Ma che donna è la donna Niù? «Colorata» risponde senza esitazione Bruno. «Viaggiatrice» rilancia Serena: «Una donna che lavora, spiritosa, autoironica, che se indossa un abito di seta in ufficio poi con un accessorio lo adatta anche per l’aperitivo con le amiche». Le collezioni come detto prendono forma dopo viaggi immersivi che l’ufficio stile fa in giro per il mondo. Ogni collezione un Paese diverso. Bali e Marocco tra gli ultimi. Un paio di settimane per assimilare da luoghi di sogno tutto il possibile e poi ritorno a Udine.

«Una volta in ufficio facciamo le cartelle colori e disegniamo le stampe, che sono fatte tutte in Fvg, con tessuti 100% made in Italy - racconta ancora Cibischino -. Quello che non troviamo sulla porta di casa lo facciamo arrivare, ma dopo rigorosi controlli, qualitativi ed etici. Le sete vengono dalla Cina ma sono certificate, i prodotti che realizziamo in Romania vengono da stabilimenti dove ci assicuriamo il massimo rispetto per i collaboratori. Lavoriamo poi in Kenia e a Bali, ormai da 12 anni, con artigiani straordinari».

E a proposito di lavoro, durante il Covid, la proprietà di Niù ha fatto un’altra scelta coraggiosa. «Abbiamo deciso di congelare i pagamenti dei clienti e chiesto di fare altrettanto ai fornitori. Le collezioni per fortuna erano già state consegnate e quell’azzardo, che poteva farci andare a gambe all’aria, si è rivelato invece una scelta vincente. Grazie al rispetto che c’era lungo la filiera abbiamo resistito allo tsunami della pandemia. Noi, i nostri clienti, i fornitori e i nostri dipendenti, ai quali abbiamo anticipato la cassa integrazione».

Scelte etiche che si ritrovano, puntuali, anche nei prodotti, fatti per durare. «Non siamo un’azienda di fast fashion, una delle soddisfazioni più grandi è quando le nostre clienti ci scrivono per dirci che mettono ancora una nostra t-shirt comprata 15 anni prima» dice sorridendo Cibischino.

Produrre prodotti che durano è del resto una scelta ecologica, che nel caso di Niù si accompagna a una serie di altre azioni, care ai titolari dal primo giorno: «Il nostro packaging è sostenibile, gli appendini si smontano così da poter essere riciclati, i cartellini sono tutti in cartone: costano il doppio ma lo facciamo con orgoglio perché il pianeta è uno». E sulle etichette si legge, sempre, “lavabile a mano“. Un altro mantra per la Ceo. «Nelle nostre collezioni non esistono capi che si devono portare in lavanderia, neanche i cappotti. E’ questo - conclude - il vero lusso».

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