Il caffè, da commodity a bevanda di lusso a causa del clima. La ricetta Illy
Le previsioni dicono che entro il 2050 il 50% delle terre adatte alla coltivazione della pianta non saranno più utilizzabili. Andrea Illy: «Da anni ci impegniamo ad educare alla sostenibilità»

«Migliorare le pratiche agronomiche rigenerative e aumentare la biodiversità, creando cultivar particolarmente resistenti ai cambiamenti climatici, dalle alluvioni al caldo eccessivo».
E’ la ricetta di Andrea Illy, presidente dell’azienda triestina che porta il cognome di famiglia, per far fronte al cambiamento climatico che sta danneggiando in modo importante anche le piantagioni di caffé.
La prospettiva, certificata da uno studio della Columbia University, è che il 50% delle terre coltivabili a caffé non sarà più utilizzabile entro il 2050, causa inaridimento del suolo da un lato, caldo e piogge eccessive dall’altro. Una previsione che deve misurarsi con l’esplosione della domanda di caffé, prevista in crescita del 25% da qui al 2030, e che già oggi fa i conti con un’offerta incapace di soddisfare la richiesta del mercato.
Il primo effetto della maggior domanda è l’aumento dei prezzi, che a maggio hanno raggiunto il massimo storico degli ultimi 15 anni. Risultato: da commodity, da bevanda universalmente utilizzata per il suo contenuto di caffeina, «insomma, per restare svegli» sintetizza Illy, il caffé rischia ora di diventare un prodotto di lusso.

«Non solo aumenteranno i prezzi - ha detto al Financial Times Vanusia Nogueira, direttrice esecutiva dell’Ico, Organizzazione internazionale del caffè -. Purtroppo, potrebbe cambiare il sapore. Meno buono proprio a causa delle alterazioni del suo ambiente naturale».
Del problema, il presidente di illycaffè si sta attivamente occupando dal 2020, anno in cui ha costituito insieme all’economista Jeffrey D. Sachs la “Regenerative Society Foundation“ per sostenere la decarbonizzazione. A distanza di nemmeno 4 anni, Illy già tocca con mano i primi risultati, raccontati in un’intervista a “la Repubblica”.
«Dopo l’anno sabbatico che io mi presi nel 2018 per studiare le questioni legate alla decarbonizzazione, il centro dell’attenzione degli studi agronomici si è spostato dalle piante al suolo, e adesso il 75% dei produttori che ci vende il caffé ha adottato pratiche rigenerative». L’attenzione all’uso dei terreni si accompagna a quella per le piante. Gli scienziati stanno lavorando all’incrocio delle due specie regine - arabica e robusta - con varietà più selvatiche e resistenti a caldo e parassiti. Il paese più avanzato in questo senso è la Colombia, «grazie alle nuove varietà più resistenti sperimentate - evidenzia Illy - puntava a raggiungere la produzione annua di 16 milioni di sacchi di caffé dai 12 precedenti. Ma poi è arrivato il Covid, e i cambiamenti climatici sono peggiorati: è come avere sempre il vento in faccia».
E le previsioni contro: entro il 2050 metà del terreno coltivato a caffé nel mondo potrebbe infatti essere inutilizzabile. Questo, come detto, a fronte di un’esplosione della domanda, sostenuta non più solo dai consumatori occidentali. Oggi ad apprezzare la tazzina sono infatti anche cinesi, indiani, indonesiani, malesi, vietnamiti, nonché le popolazioni dell’Africa sub-sahariana. Un esercito di caffé-addicted che si prevede farà lievitare a 6 miliardi il numero di tazzine al giorno entro la metà del secolo.
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