In Patagonia il vigneto “friulano” più a sud del mondo
Pinot grigio, Traminer e Chardonnet i prodotti di una tenuta, avviata dal figlio di emigranti, Sergio Rodriguez, in una terra apparentemente ostile

E’ con buona probabilità il vigneto più australe del mondo quello che Sergio Rodriguez gestisce in Patagonia, nella regione del Chubut, municipalità di Trevelin, in piena cordigliera delle Ande.
Figlio di emigranti partiti da Cordenons, dopo aver fatto per anni il maestro elementare ha sentito il richiamo della sua terra d’origine e il desiderio di dedicarsi a quel prodotto di cui tanto, da bambino, aveva sentito parlare da nonni e genitori: il vino. Un progetto, il suo, che che ha però dovuto fare i conti con una serie di complessità.
«Sì, perché dove vivo e dove ho deciso di impiantare le prime barbatelle la temperatura scende anche fino a -17° d’inverno e d’estate l’escursione termica ci regala 35° di giorno e -10° di notte. Abbiamo dovuto imparare non solo a coltivare la vite, ma anche a proteggerla dal ghiaccio» ha raccontato Rodriguez durante una sua recente visita in Friuli, ospite del comune di Povoletto e dell’Ente Friuli nel Mondo che l’hanno fatto incontrare con i vertici dell’associazione Città del Vino per gettare le basi di un rapporto che, nel tempo, si spera possa fiorire portando nuovi legami e occasioni basati sull’economia del vino anzitutto, ma anche sul legame inossidabile tra gli emigranti friulani e la loro terra madre.

«Il vino ce l’ho sempre avuto nel cuore» ha raccontato a Povoletto il viticoltore, aiutato da Carla Rossi, console onoraria dell’Argentina, lei originaria del paese dell’hinterland udinese, a beneficio del sindaco Castenetto, degli assessori Rossi e Tracogna, del presidente dell’Ente Friuli nel Mondo, Loris Basso, del coordinatore regionale di Città del vino, Tiziano Venturini, e ancora di Michele Ciani, in rappresentanza dei viticultori di Povoletto.
«Mia nonna - ha proseguito l'imprenditore - mi parlava sempre di come il mio bisnonno producesse il vino in Friuli, di come innestasse le viti e anche di come durante la guerra producesse grappa in modo clandestino per scambiarla con i beni primari: sapone, vestiti. Quei racconti hanno continuato a ronzarmi in testa per tutta la vita e a un certo punto ho deciso che ci dovevo provare».
Rodriguez lascia così un lavoro sicuro e pianta, dove nessuno pensava fosse possibile, la sua prima vite. «Era Pinot nero, una pianta che ben si adatta al clima freddo della Patagonia, pur con la necessità di una serie di accortezze. Abbiamo dovuto da subito utilizzare reti per coprire le viti ed evitare che gli uccelli si mangiassero gli acini e poi, dopo svariate ricerche, abbiamo iniziato a usare il metodo della nebulizzazione della pianta per evitare che il ghiaccio la uccidesse. Di fatto - racconta l’imprenditore - nebulizziamo acqua sugli acini creando un sottile involucro ghiacchiato che li protegge dalla discesa vertiginosa delle temperature. Si tratta di una pratica mai provata a temperature così basse, che è alla base dell’identità del nostro vino. La pianta si sente minacciata, stressata, si rafforza e produce buona uva».

Da quella prima vite, l’azienda di Rodriguez è arrivata oggi a contare su una superficie vitata di 3 ettari per un totale di 16mila piante che gli regalano una produzione di 12mila bottiglie l’anno tra Pinot grigio, Traminer e Chardonnet.
Che vini sono? «Molto europei. A differenza dei vini argentini i nostri sono fruttati, soavi, si possono bere in qualsiasi momento della giornata e accompagnare a uno svariato numero di piatti». E sono vini che hanno raccolto anche il consenso della critica considerate le 23 medaglie d’oro di Tim Atkin, grande conoscitore della produzione argentina.

Quella di Rodriguez per ora si esaurisce quasi tutta in loco, anche grazie all'agriturismo che si affianca all'azienda agricola e che attrae ogni anno migliaia di turisti. «Esportare i miei vini? Perché no - ha detto a Povoletto precisando però che «in Friuli sono venuto soprattutto per farvi conoscere come anche in Patagonia ci sia una forte identità friulana. Io sono nato in Argentina, ma sono figlio di un emigrante. I miei nonni, Elda e Leone, hanno lasciato il Friuli dopo la seconda guerra mondiale. Mia mamma Maura aveva 4 anni. In Argentina ha fatto la maestra elementare, mio padre Rodolfo il giardiniere».
Sullo sondo di una vita in Sudamerica la famiglia ha però conservato sempre, vivido, il ricordo malinconico delle origini. Di una terra lontana e mai dimenticata. «Io, che pure sono nato in Argentina, mi sono sempre sentito un uomo diviso in due: un pezzo argentino, l’altro friulano». Una dualità che il vino in qualche modo oggi ha ridotto, riavvicinato, aprendo nuove vie di relazione tra Friuli e Patagonia e perché no, anche di business.
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