Infineon, l’auto del futuro nasce qui: a Padova il centro di ricerca del colosso della microelettronica

Chip per sensoristica e guida autonoma, in un palazzo non lontano dalla stazione c’è uno degli hub internazionali di una delle più grandi multinazionali del settore

PADOVA. In un palazzo non lontano dalla stazione di Padova, perfettamente mimetizzato tra la sede di alcuni grandi enti regionali e gli uffici di piccole e grandi società e professionisti, c’è uno dei centri di ricerca internazionali di una delle più grandi multinazionali del settore della microelettronica esistenti al mondo. Un società che investe ogni anno in R&D circa il 13% del suo fatturato e il cui lavoro è addirittura condizione sine qua non per l’esistenza di quel modello evolutivo che va sotto il nome di digitalizzazione.

Questa società, di diritto tedesco, si chiama Infineon e fatturava, durante l’anno fiscale 2019-2020, poco più di 8, 56 miliardi di euro con una crescita del 16% rispetto al periodo precedente anche grazie agli effetti dell’ingresso della statunitense Cypress (un’operazione da oltre 9 miliardi di dollari iniziata nel 2019 e conclusasi solo ad aprile 2020) nel bilancio consolidato di gruppo. A Padova Infineon ha scelto di collocare uno dei suoi grandi centri di ricerca, che ad oggi occupa circa 210 persone, in lenta ma costante crescita dal 2001, quando Giorgio Chiozzi, direttore della struttura, e il primo gruppo di ricercatori di Infineon (a sua volta costola di Siemens diventata autonoma solo nel 1997) ha individuato, di comune accordo con i vertici della società, Padova come sede ideale.

Una scelta legata alla logistica ma anche al reperimento di risorse umane qualificate che hanno garantito a questa struttura di ricerca di Infineon di prosperare fino ad ora, lavorando sui componenti hardware delle microelettronica e della sensoristica che garantisce alle auto di mezzo mondo di registrare informazioni, ottimizzare le proprie funzioni, ma anche di apprendere dalle esperienze ed elaborare strategie di efficienza.

Un lavoro di frontiera, quello che il gruppo padovano di Infineon svolge ogni giorno, e che attualmente è orientato non solo allo sviluppo delle nuove generazioni di fari intelligenti ma anche alla guida autonoma, all’intelligenza artificiale e al deep learning dell’automotive e non solo. Sono passati per l’R&D padovano intere famiglie di prodotti all’avanguardia applicati al settore dell’automotive ma anche un’infinità di altri strumenti e macchinari che vanno dall’industria fino all’aerospazio.

«Pure non essendo dei millennial, possiamo definirci a tutti gli effetti nativi digitali, per lo meno professionalmente» spiega Giorgio Chiozzi, direttore del centro di ricerca padovano di Infineon. «Per noi l’uso di elaboratori, computer e software sempre più complessi, lo scambio di dati, la loro analisi ed elaborazione, l’interazione mediata tramite strumenti digitali è un fenomeno connaturato alla nostra attività. È cambiata la capacità di calcolo delle nostre macchine, sono cambiate le interfacce per gli utenti, diventando più friendly e sofisticate, il data analysis e l’intelligenza artificiale hanno modificato in parte la nostra attività, in qualche maniera agevolando il nostro lavoro, ma la natura di quello che facciamo non è cambiata: noi costruiamo quelle macchine che poi raccolgono, elaborano e gestiscono i dati. Il nostro lavoro sta a monte dei sensori e dell’intelligenza artificiale, siamo di fatto noi a realizzare questi strumenti e li usiamo, quando sono utili, per semplificare una parte di un lavoro creativo che però sta a un livello diverso e più complesso».

Giorgio Chiozzi
Giorgio Chiozzi

Un livello dove la ricerca ha a che vedere con le competenze e la creatività di gruppi di lavoro che si creano e si sciolgono per specifici obiettivi. Proprio in questo senso la pandemia ha creato qualche difficoltà all’organizzazione del lavoro di Infineon. «Non si può certo dire che non fossimo ampiamente attrezzati per una virtualizzazione del lavoro» spiega Chiozzi. «Già prima della pandemia avevamo un accordo per l’uso dello smart working e in effetti il lockdown non è stato un grande scoglio né ha obiettivamente causato un sensibile rallentamento dei nostri processi produttivi. A tutt’oggi solo circa il 30% del nostro personale lavora in sede mentre gli altri sono liberi ed anzi incoraggiati a lavorare da casa. E tuttavia la virtualizzazione dei processi è fonte di qualche grattacapo.

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La redazione

Da noi si lavora in piccoli team per obiettivi specifici e non sempre i membri del team si conoscono bene o hanno già lavorato insieme. Per creare lo spirito giusto una volta bastava fare una bella gita tutti insieme, a Venezia o in un altro posto. Si visitava un paio di musei si andava a pranzo insieme, le persone imparavano a conoscersi, e poi lavoravano insieme con più facilità. Ora questa fase non la si può affrontare e il processo di integrazione tra i membri dei nuovi team è un po’ più lenta. C’è poi la questione relativa alle condizioni di vita e lavoro da casa, non sempre agevoli per tutti in egual misura. In parte abbiamo scelto di tenere aperti gli uffici anche per questo: per rendere più facile a chi da casa proprio non riesce a lavorare l’essere attivo in azienda, usando l’ufficio come luogo per concentrarsi anche solo per qualche ora al giorno».

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