Intervista a Franco Stevanato: «In tanti avrebbero voluto comprarci, siamo cresciuti oltre il Covid»

"Nei prossimi 10 anni ci candidiamo a offrire un servizio completo alla casa farmaceutica fino alla soluzione totale che la stessa possa richiederci. Big Pharma trattiene sviluppo molecola e commercializzazione, ossia il suo core. Vorremmo divenire un partner olistico, come avviene nel settore automotive" afferma Stevanato
Franco Stevanato visto da Massimo Jatosti
Franco Stevanato visto da Massimo Jatosti

«Facciamo device, non solo fialette». In Franco Stevanato, 46 anni, Ceo da gennaio, terza generazione al timone con suo fratello Marco, dopo il nonno Giovanni e accanto al padre Sergio, l’understatement è innato. Ma tiene a illuminare bene un mestiere che mette il gruppo di famiglia direttamente in rapporto con i Big Pharma mondiali. Mestiere che ha garantito all’azienda di raddoppiare i ricavi in cinque anni e di moltiplicarli per 5 in un decennio.

Che mestiere fa Stevanato Group?

«Tutto origina da nonno Giovanni, che oltre 70 anni fa ebbe l’idea e il coraggio di automatizzare il processo di lavorazione del vetro. Le origini sono importanti per capire dove andiamo. Difatti oggi siamo produttori leader di tubofiale per insulina, tra i primi per flaconi e siringhe, tra i principali produttori di dispositivi diagnostici per point of care. Ma una nostra peculiarità è che siamo leader nello sviluppo e nella realizzazione di macchinari per il settore farmaceutico».

Ma detto delle radici, non vede un punto di svolta nella vostra traiettoria?

«Agli inizi degli anni 2000, i maggiori clienti ci hanno chiesto di seguirli con la nostra capacità ingegneristica e il nostro know- how, da principio avviando stabilimenti in Slovacchia, Messico, Cina, Brasile. In seguito abbiamo aperto centri di sviluppo tecnico con biologi, chimici, ingegneri per il supporto alla fase pre-clinica dei farmaci in Giappone e a Boston. In questo percorso, contiamo oltre 1400 linee di produzione progettate e assemblate presso i nostri clienti. Implicita una intima conoscenza del processo nostro e del cliente. E sempre mirando, in funzione del paziente, a una qualità senza compromessi».

Una natura bizzarra, tra l’ingegneria, il metalmeccanico, la robotica, il farmaceutico, la ricerca scientifica. Con questo Dna, che futuro immagina per Stevanato?

«Siamo l’esito della integrazione di tecnologia di processo e prodotto, con servizio annesso. Fattore di forza rispetto ai concorrenti. Se siamo oggi a produrre device per il trattamento del dolore che rilasciano gradualmente il medicinale nell’arco della giornata, dipende proprio dal nostro Dna anomalo. Nei prossimi 10 anni ci candidiamo a offrire un servizio completo alla casa farmaceutica fino alla soluzione totale che la stessa possa richiederci. Big Pharma trattiene sviluppo molecola e commercializzazione, ossia il suo core. Vorremmo divenire un partner olistico, come avviene nel settore automotive. Ci spostiamo in fascia alta del valore, con investimenti in ricerca, talenti, tecnologia».

Lei fa riferimento a quel che ha ricevuto da nonno e papà suo. E che azienda vorrebbe lasciare ai figli?

«Con papà e con Marco condividiamo uno scenario importante: nei prossimi 20-30 anni vogliamo distinguerci come partner proattivi nel campo farmaceutico, delle biotecnologie e della diagnostica molecolare».

Mai pensato di vendere?

«Tanti fondi volevano comperarci, ma non ci servono investitori esterni. Abbiamo una posizione finanziaria netta pari a 1,3 volte l’Ebitda. Anche lo scorso anno siamo cresciuti oltre il 15% per ricavi e marginalità».

Avete avuto un vantaggio nelle vendite dal Covid?

«I vaccini per noi hanno pesato il 5% e dunque siamo cresciuti a prescindere dalla pandemia. In 20 anni l’azienda è sempre cresciuta. E lo dico con il senso di responsabilità sociale connesso al nostro ruolo, verso tutti gli stakeholder a partire dai nostri 4.300 dipendenti. Vogliamo creare valore in modo umile ogni anno, senza chiasso».

Metà dei vostri dipendenti sta in Italia. E domani?

«Il quartier generale di Piombino Dese sarà sempre la nostra portaerei Saratoga. Qui stiamo realizzando un investimento da 140 milioni per la produzione di prodotti sterili relativi al piano industriale approvato al 2023 con un valore totale di 400 milioni. Ma il nostro asse di sviluppo non può che essere globalizzato. L’acquisizione in Danimarca di una azienda forte in ingegneria per la automazione delle linee fino alla ispezione del prodotto riempito, di una in Germania e una in California nel campo della plastica per un totale di circa 800 persone, fa sì che abbiamo costruito una pipeline globale nei prodotti e nelle biotecnologie. Non abbiamo solo aumentato la capacità produttiva. Ci sta una crescita di know-how, brevetti, validazione regolatoria. Ci sta la capacità scientifica di trattare vetro, plastica e trattamenti in un percorso che tiene assieme meccanica, robotica, ricerca e sviluppo. Piombino Dese avrà l’alto di gamma».

Che implica investimenti in R&S e possibilità di avere talenti. Come è il vostro rapporto e giudizio dell’Università italiana?

«Siamo da sempre concentrati con papà e Marco nella ricerca dei talenti. Abbiamo rapporti stabili con Ca’ Foscari, con gli atenei di Padova, Napoli. Di recente abbiamo intrapreso una collaborazione con la tedesca Fraunhofer per introdurre e sviluppare i software per i rover di fine linea, con collegamenti all’intelligenza artificiale».

La vostra è la storia di successo di una impresa familiare. La famiglia può essere un ostacolo all’azienda?

«La governance è un aspetto primario: in 70 anni la famiglia è stata sempre unita. E insieme aperta. Abbiamo definito una “carta dei valori”. Dopo di che, la distinzione tra azionisti e management è netta. Nel board la famiglia è in minoranza, in particolare abbiamo quattro consiglieri americani. Un aiuto essenziale a governo e indirizzo, per pensare in grande e garantire una solida esecuzione. Uno di loro è l’ex amministratore delegato di West Pharmaceutical, quotata da 20 miliardi di capitalizzazione».—

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