La chef stellata Antonia Klugmann: «La memoria in cucina alimenta l’identità dei nostri territori»
Le convinzioni della chef stellata triestina trapiantata in Friuli:
«Il mio ristorante non è un’astronave atterrata in un luogo»

VENCO’. Com’è successo per molti settori, anche il mondo della ristorazione si divide in un “prima” e dopo la “pandemia”. Se prima andare al ristorante poteva essere un ripiego alla routine domestica, ora è certo che chi va a mangiare fuori si aspetta un luogo sicuro e controllato dove è un piacere socializzare e dove si trasmette cultura. Il ristorante è diventato un valore aggiunto per il territorio. E si fa strada a grandi passi la tendenza all’asporto di qualità.
Innovatrice, curiosa e attenta a comunicare bene i suoi valori, è Antonia Klugmann, chef e titolare del ristorante “L’Argine” a Vencò, riuscita a conquistare una stella Michelin un anno dopo l’apertura. Klugmann sottolinea convintamente la sua identità culinaria italiana e anche di triestina trapiantata in Friuli.
«Qualunque sia la sua origine, ognuno di noi è portatore di memorie legate al tipo di famiglia. La mia è triestina, ma è mista: un nonno era pugliese e l’altro di origine ebraica, una nonna di Ferrara. Ogni membro portava a casa il suo modo di intendere gli ingredienti e questo creava una stratificazione che è molto tipica della cultura culinaria di questa terra ed è assolutamente unica nel nostro Paese. Da professionista lavoro in Friuli, con una tradizione gastronomica diversa che ho studiato, conservando le mie memorie di bambina, senza occuparmi di rivisitazione delle ricette. Ciononostante, i miei clienti si sentono rappresentati dalla scelta degli ingredienti, trovando echi delle loro memorie nei piatti. Il mio ristorante non è un’astronave atterrata in un luogo, è profondamente radicato qui grazie a queste memorie. Di rivisitazione della tradizione invece, mi sono occupata nella recente esperienza di delivery».

Un’altra frontiera inesplorata prima del Covid. Sarà il futuro della ristorazione?
«Penso che ci sia una nuova consapevolezza del cliente di quanto possa essere interessante un asporto di qualità. Prima della pandemia ci si fermava al concetto di gastronomia, soprattutto a Trieste, regno delle buffetterie. È premiante utilizzare le tecniche di alta ristorazione per dare il massimo della modernità pur con ingredienti non così lussuosi. La tengo nel cassetto come esperienza professionale interessantissima da utilizzare in futuro».
Assegnate le stelle Michelin, confermata la sua. Nonostante i moltissimi challenge e premi in questo settore, quella che comanda è sempre lei, la rossa. È d’accordo?
«Tutte le guide hanno un loro taglio ma per i cuochi quando esce la Michelin è un momento da brivido perché è un riferimento internazionale. Quella innescata dalla Michelin è una competizione utile e sensata, anche se non occorre avere un ristorante stellato per essere felici in cucina. Penso che l’asticella vada alzata quotidianamente per migliorarsi».
Quest’anno c’è stata una crescita dell’assegnazione delle stelle verdi, praticamente il nuovo mantra. Si sarebbe aspettata questo riconoscimento data la sua forte identità sostenibile e green?
«In realtà, rispetto a tutti i fattori presi in considerazione e che ci appartengono completamente, come zero spreco energetico e degli ingredienti e utilizzo sostenibile di risorse umane, quello che ci manca è la produzione delle materie prime. Dietro l’apparato ristorativo nei premiati verdi ci sono aziende agricole. Noi abbiamo un piccolo orto e da anni faccio sostenibilità anche in termini di approvvigionamento delle materie prime soprattutto locali o provenienti da allevamenti esclusivamente non intensivi, ma non produco. Rimango convinta che il piatto debba essere al centro e che mangiare bene non abbia necessariamente a che fare con le stelle. L’originalità del cuoco si deve sentire nella sua autenticità».
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