«Le “quote rosa” sono un male necessario, ma il ruolo lo si conquista»

A dirlo è Lilli Samer, presidente di Aidda Fvg e Ad di Samer & Co. Shipping

Lilli Samer
Lilli Samer

TRIESTE. «Le quote rosa? Un male necessario». Lo dice non solo da imprenditrice, Lilli Samer, ma anche da presidente regionale dell’Aidda, l’Associazione imprenditrici e donne dirigenti d’azienda, che da sessant’anni opera con l’obiettivo di valorizzare l’imprenditoria al femminile e di sostenere il ruolo delle donne manager e delle professioniste. Il bilancio di dieci anni in regime di legge Golfo-Mosca, la norma che ha introdotto le quote minime di rappresentanza di genere nelle public company e nelle società quotate in borsa, per Samer sono la fotografia di un obiettivo sostanzialmente raggiunto.

Ma il confronto tra chi è soggetto a quote e chi non vi è tenuto, per la presidente dell’Aidda Fvg (77 le associate in regione, espressioni di aziende con 1,45 miliardi di fatturato e 5.800 dipendenti), non può essere nello stesso tempo un argomento a favore di un’estensione degli obblighi: «Le quote rosa hanno un senso nella politica – sostiene – e l’esito delle recenti elezioni amministrative l’ha dimostrato, visto il numero ancora molto basso di donne elette. Ma non credo che possiamo imporle anche nel privato, al di fuori degli ambiti dove sono già previste. Sono le imprese e le donne che dovranno fare la loro parte».

Se nei consigli di amministrazione delle quotate la quota di donne nei consigli di amministrazione, secondo gli ultimi dati disponibili, è passata dal 6% scarso del 2008 al 36% del 2019, la strada da fare è ancora tanta.

Sia ai vertici della piramide, perché non tutto è oro quello che luccica e la presenza di donne in posizioni chiave è limitata, sia soprattutto alla base, dove le presidenti, le amministratrici delegate e in genere le manager donna costituiscono tuttora un’eccezione.

Il gruppo Samer, uno dei principali player che operano nel porto di Trieste, con uffici anche in altri dieci Paesi, è una realtà con una forte impronta femminile. «Il 64% della nostra forza lavoro è composta da donne e diverse di queste (non soltanto Lilli Samer, che è amministratrice delegata di Samer & Co. Shipping, ndr) occupano posizioni manageriali. Molte di loro, anche tra quelle che occupano posizioni chiave, sono madri e hanno saputo ugualmente gestire bene il proprio lavoro e la propria carriera, nonostante la nostra realtà italiana e anche regionale sconti tuttora, rispetto ad altri Paesi europei, una carenza di servizi a sostegno della maternità e dei carichi familiari in genere, dagli asili nido fino alla scuola a tempo pieno».

GIOVANNI MONTENERO
GIOVANNI MONTENERO

Qualcosa si muove anche su questo versante, e pian piano si diffonde anche una cultura di condivisione dei carichi familiari che latitava anche in un passato recente e che in molte realtà latita ancora. «Il fatto che l’uomo possa usufruire di un congedo o che sia lui a lavorare part-time – commenta ancora Samer – non è più così raro o guardato con sospetto come accadeva in passato, ma la strada da fare è ancora tanta. La condivisione dei carichi familiari, infatti, resta tuttora un problema che riguarda prevalentemente le donne».

Non a caso sono soprattutto le donne, oggi, a interrogarsi sul futuro dello smart working, quel lavoro agile che, esploso come risposta obbligata alla pandemia, oggi in molti (e in molte) chiedono di valorizzare anche come strumento di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Per molti, in realtà, rischia anche di rivelarsi una trappola per le donne: una recente analisi della società di consulenza McKinsey, infatti, dice non solo che i posti ricoperti dalle donne sono 1,8 volte più vulnerabili alla crisi Covid rispetto a quelli dei loro colleghi, e che una più prolungata permanenza delle donne in smart working può essere un fattore penalizzante per le loro prospettive di carriera.

Per Lilli Samer lo smart working rappresenta uno strumento innovativo di organizzazione del lavoro a vantaggio sia delle imprese che dei dipendenti, ma a patto che si esca da quella concezione “difensiva” del lavoro agile che ha caratterizzato l’emergenza pandemica: «Qui in Samer – spiega – avevamo già cominciato a praticare lo smart working prima del 2020, ma poi è arrivata la pandemia ed è stato comunque spiazzante. All’inizio, infatti, la gran parte delle aziende e dei lavoratori non erano attrezzati, per un fatto organizzativo e anche per questioni di dotazioni tecnologiche. E adesso, che siamo in una fase di uscita e di ritorno alla normalità, constatiamo come questo strumento riguardi maggiormente le donne: lo sappiamo e i dati generali lo confermano. Ecco perché si tratta di tornare a ragionare sul lavoro agile uscendo da una logica emergenziale, ma applicandolo con scelte precise e ragionate a seconda dei tipi di lavoro e delle disponibilità individuali».

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