Livon, dalla censura Usa alla cantina dei vini Cru

Uno sguardo all’orizzonte, prima di srotolare il filo dei ricordi. Livon, marchio del vino tra i più conosciuti e solidi nel Collio, ha celebrato i 60 anni di attività.
«Siamo orgogliosamente un’azienda agricola - dice Valneo Livon, seconda generazione e figlio del fondatore Dorino - e vogliamo continuare a esserlo». Il futuro infatti è promettente. Perché la famiglia ha già concluso con successo - caso più unico che raro da queste parti, dove le cantine, anche quelle importanti, vengono vendute alla velocità della luce - il passaggio generazionale.
Oggi al timone della società c’è Matteo Livon, 36 anni, che dopo la scuola di enologia a Cividale ha vissuto sempre tra potature e imbottigliamenti. A lui tre anni fa il padre e lo zio Tonino hanno affidato, con naturalezza e convinzione, le redini dell’attività. E con lui è logico pensare alla Livon che verrà, ai piani di sviluppo di un’impresa che attualmente vanta 180 ettari di terreni nelle Doc Collio, Friuli e Colli orientali, fattura 6 milioni di euro e ha nel portafoglio di gruppo, oltre alle tenute in Friuli, due “filiali”, 29 ettari tra bosco e vigneti a Borgo Salcetino nel Chianti classico e Colsanto, 20 ettari nel Montefalco Doc in Umbria.
«L’investimento più importante che stiamo già facendo - dice l’amministratore delegato - è legato alla nuova cantina di Dolegnano, che prevediamo di completare nel 2025. Una spesa per noi importante, che alla fine arriverà a 3 milioni di euro. Il progetto è dell’architetto udinese Enrico Franzolini, una firma di design, perché vorremmo che diventi il nostro fiore all’occhiello. Lì collocheremo le botti in rovere da 25 ettolitri per l’invecchiamento dei Cru, i due bianchi Braide Alte e Manditocai e il rosso Tiare blu. Con la Garbellotto che ci fornisce le botti su misura, abbiamo studiato le selezioni di rovere, il cui legno dovrà garantire struttura, dolcezza, spezie ed equilibrio. Inoltre nella cantina installeremo 10 uova in cemento da 10 ettolitri ciascuna, una novità assoluta, proveremo a “invecchiare” alcuni vini anche in cemento. Avremo un’area dedicata all’incoming con cucina a vista per unire le degustazioni con la preparazione di piatti del territorio. Sul soppalco andranno gli uffici commerciali e amministrativi».
Ma le novità non sono finite qui. «Accanto alla cantina - aggiunge Matteo Livon - creeremo un giardino e un orto didattico, per spiegare agli ospiti o anche alle scolaresche che verranno a trovarci il lavoro che viene fatto in vigna. Ci saranno i tralci di vite, ognuno potrà vedere come avvengono le potature, come nasce e si sviluppa un grappolo d’uva nel corso della stagione». Per il manager la parola d’ordine “sostenibilità” non è solo uno slogan, ma un’applicazione quotidiana.
«Con i miei familiari e i collaboratori - afferma - le decisioni si prendono in squadra. Il nostro percorso è rivolto alla sostenibilità, siamo certificati Sqpn in bottiglia, il fotovoltaico è in tutte le strutture e gli edifici dell’azienda, stiamo cambiando macchinari e trattori, puntando a quelli più tecnologicamente avanzati, con tracciamento Gps e impatto intelligente in vigneto. Inoltre stiamo rinnovando gli impianti, ne cambiamo circa il 5% l’anno, i vigneti più vecchi hanno una trentina di anni in media. Stiamo investendo sempre più sulle varietà autoctone».
Livon vende in Italia, canale Horeca, e all’estero circa 800 mila bottiglie l’anno e ha una cinquantina di dipendenti. L’etichetta più prestigiosa è il Braide Alte, 13 mila bottiglie l’anno, un uvaggio bianco di Sauvignon, Chardonnay, Picolit e Moscato giallo, la cui prima vendemmia risale al 1996. Riavvolgendo il filo della memoria il salto all’indietro, al 1964 della fondazione, è doveroso, perché proprio la nascita dell’azienda è stata una scelta controcorrente.
«In quegli anni tutti abbandonavano la terra e il lavoro nei campi - dice Valneo Livon, il figlio del capostipite - per andare in fabbrica, c’era il triangolo della sedia che si stava sviluppando in modo impetuoso. Mio padre Dorino e mia madre Elda Zorzettig, invece, che commerciavano in legname, piano piano cominciarono ad acquistare proprio quei terreni, nella collina di Ruttars, a Dolegna, che nessuno voleva più. E oggi da quella collina vengono i vini più conosciuti e importanti. Negli anni Sessanta in Friuli non esisteva imbottigliamento, si vendeva il vino sfuso nelle trattorie, la città di Udine era il punto di riferimento, le varietà richieste erano solo Tocai (l’attuale Friulano), Merlot e Cabernet. Poi, visto che il vino era buono e tanti lo richiedevano, siamo arrivati prima nei ristoranti del Veneto e via via nelle varie regioni. La svolta, il salto di qualità, risale agli anni Ottanta, quando io e mio fratello facemmo un viaggio nelle più importanti realtà vitivinicole del mondo, dalla Francia al Cile alla Spagna, e portammo un po’ di quella esperienza sul Collio. E così ristrutturammo i vigneti, abbassammo le rese per ettaro, selezionammo i migliori Cru».
Ma c’è un episodio, in questi primi 60 anni di Livon, che è rimasto scolpito nei ricordi collettivi e che all’epoca, siamo all’inizio degli anni Novanta, fece il giro del mondo. «Avevamo spedito il primo container in California - racconta Valneo Livon -, erano 12 mila bottiglie, un affare importante, il nostro approdo negli Stati Uniti».
La gioia dei Livon si spense subito perché uno zelante ufficiale di dogana proibì il commercio di quel prezioso carico di vino. Il motivo? Le etichette in bottiglia, che riportano il disegno della “Donna alata” dell’artista di origine russa Ertè, erano state giudicate sconvenienti, visto che la “Donna alata” era disegnata a seno nudo.
«La notizia finì su tutti i media americani e italiani - spiega ancora Livon - ma noi in quel momento eravamo disperati, stava andando in fumo il lavoro di una vita. Alla fine si trovò una soluzione all’ultimo momento: bisognava ricoprire con un reggiseno l’immagine. E così ingaggiammo alcune professioniste che, bottiglia per bottiglia, in 12 settimane di lavoro, disegnarono un reggiseno dorato sulla “Donna alata”. Ma non finì qui: ci fu vietato di esportare negli Usa le bottiglie con quella etichetta e così fummo costretti a “piallare” il seno della “Donna alata”, un compromesso che ebbe il placet dell’artista che non gradì affatto la censura degli americani. Questa storia andò avanti fino al 2000, poi le autorità sdoganarono la “Donna alata” originale, per la gioia di tutti». —
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