Massimo Pavin: «L’Europa è il mercato sui cui dobbiamo puntare: siamo due volte gli Usa»

Un gruppo da 420 milioni sei stabilimenti in Italia e sette all’estero. L’intervista all’imprenditore padovano a capo della multinazionale Sirmax: «Tutti i Paesi si stanno chiudendo». «Invece che importare tutti i prodotti dall’Asia a basso costo concentriamoci su di noi»

Giorgia Pacino

 

Altro che Cina o India. «Un mercato alternativo agli Stati Uniti in cui reindirizzare le nostre merci? L’unico è il nostro, quello europeo». Non ha dubbi Massimo Pavin, presidente e amministratore delegato di Sirmax Group. Dopo aver aperto sei stabilimenti in Italia e altri sette tra Polonia, Brasile, Stati Uniti e India, l’imprenditore padovano alla guida di un gruppo da 420 milioni di fatturato nel 2024 ha imparato a conoscere bene i mercati di mezzo mondo. In India è arrivato tra i primi: dal 2017 sono attivi nel Paese due stabilimenti che producono granuli termoplastici e nel 2026 diventerà operativo il terzo, che sarà il quattordicesimo del gruppo.

Avete investito prima di altri in India. Che ambiente avete trovato?

«Abbiamo sempre seguito clienti globali, nel settore delle auto e dell’elettrodomestico. Nel 2015 abbiamo chiuso il cerchio dell’internazionalizzazione nella parte occidentale del mondo e abbiamo cominciato a guardarci a Oriente. L’India è un mercato con grandissime potenzialità di sviluppo. Lo grida meno dell’America di Trump, ma Modi con il suo “make in India” vuole portare a casa tutta l’industria. Non con la volontà di servire il mercato internazionale, ma il suo mercato domestico, che è fatto di 1 miliardo e 400 milioni di abitanti».

Che ostacoli avete incontrato nell’accesso al mercato indiano?

«Bisogna essere presenti là. Mentre nel mondo occidentale siamo sempre andati da soli e abbiamo costruito da zero la fabbrica e i rapporti con la catena del valore, lì non funziona così. Abbiamo capito che in India dovevamo andarci con gli indiani. Per questo abbiamo selezionato un partner che potesse fare al caso nostro e abbiamo avuto la fortuna di trovare una famiglia come noi, la terza generazione di una lunghissima tradizione di materie plastiche in India. Sono i miei fratelli indiani: lavoriamo insieme dal 2017 con una partnership al 50%. Loro avevano già due stabilimenti a Mumbai e Delhi, noi abbiamo portato la nostra tecnologia e abbiamo fatto un revamping completo degli stabilimenti, con la costruzione di capannoni, l’introduzione di macchinari e la trasformazione dei vecchi immobili in magazzini».

Qual è stato il vantaggio per i vostri partner?

«Un’impresa solo indiana poteva avere dei limiti nel rapporto con clienti globali. La loro è un’economia globale ma locale nella supply chain. Operando solo come azienda locale, rischiavano di essere tagliati fuori dalle multinazionali. Con noi sono entrati nei network internazionali: dal 2017 a oggi abbiamo raddoppiato la capacità produttiva crescendo a doppia cifra tutti gli anni».

E per voi?

«Noi siamo penetrati in quel mercato grazie alla reputazione della famiglia indiana. La legislazione lì è molto particolare: avere un partner locale che condivide i nostri stessi valori e che conosce le regole del gioco è stata la carta vincente. Così come l’unione di due famiglie in un’impresa privata».

In questi anni di presenza in India, avete visto intensificarsi i rapporti con le aziende europee?

«All’inaugurazione del revamping dello stabilimento di Delhi, due mesi fa, è venuta anche una rappresentanza dell’Ambasciata italiana. Di certo l’India sta lavorando molto per attrarre le nostre aziende, ma non è una questione di bilancio commerciale bensì di voler importare tecnologie occidentali».

Crede che ci sia spazio per aumentare l’export italiano verso l’India?

«Non lo vedo un mercato in cui esportare: sta riducendo le importazioni dalla Cina e punta ad attirare aziende che vogliano produrre sul posto. Le grandi acciaierie sono indiane e sono diventati bravi anche a costruire i macchinari. Ricordo che alla prima missione in India a cui ho partecipato con la Regione Veneto, sarà stato il 2013 o il 2014, c’erano tanti imprenditori caseari: alla fine gli indiani hanno imparato a fare formaggi, mozzarelle e burrate e, visto che il latte lì non manca, ora hanno una produzione straordinaria».

Non crede, quindi, che l’India possa rappresentare un’opportunità per le aziende italiane che venderanno meno negli Stati Uniti?

«L’India è una grande opportunità per servire clienti globali o per esportare la nostra tecnologia, ma se mi chiede dove possiamo reindirizzare le nostre merci, ora che gli Usa si sono chiusi, la mia risposta è in Europa. Abbiamo 420 milioni di abitanti: abbiamo la possibilità di vendere in Europa. Non è tanto una questione di dazi alle importazioni, ma di accertare che tutti giochino con le stesse regole».

Cioè?

«Non possiamo essere invasi dai prodotti asiatici. Oggi produrre in Europa costa, ma i nostri “auto-dazi” sono vincoli giusti. Pensiamo alla Turchia, che non rispetta le sanzioni contro la Russia e compra energia e plastica a prezzi diversi: quella è concorrenza sleale. Oggi i mercati si stanno chiudendo: l’America si è chiusa, il Brasile ha messo dazi importanti, anche la Cina e l’India si chiudono. Invece di importare merci che costano meno delle nostre ma sono prodotte a prezzi diversi, concentriamoci sul nostro mercato domestico, che il doppio di quello degli Usa. Possiamo diventare noi gli Stati Uniti d’Europa». —

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