Moser: «La e-bike allarga il mercato perché consente a tutti di praticare il ciclismo»

Francesco Moser, 71 anni, natali a Palù di Giovo e azienda vitivinicola da 30 ettari sulle colline di Trento, oltre che un ex campione del ciclismo professionistico (273 vittorie fra cui un campionato del mondo nel 1977, tre Parigi-Roubaix fra 1978 e 1980, il record dell’ora nel 1984), è anche un imprenditore. Nel campo del vino e in quello della bicicletta
Maurizio Caiaffa
Francesco Moser visto da Jatosti
Francesco Moser visto da Jatosti

«Nel giro di qualche decennio, il mondo della bicicletta e quel che ruota intorno ad essa, è completamente cambiato». Francesco Moser, 71 anni, natali a Palù di Giovo e azienda vitivinicola da 30 ettari sulle colline di Trento, oltre che un ex campione del ciclismo professionistico (273 vittorie fra cui un campionato del mondo nel 1977, tre Parigi-Roubaix fra 1978 e 1980, il record dell’ora nel 1984), è anche un imprenditore. Nel campo del vino e in quello della bicicletta.

Moser, lei da oltre un anno ha lanciato sul mercato la bicicletta elettrica a marchio F Moser, prezzo da 5 mila a 11 mila euro a seconda dell’allestimento. Come sta andando?

«A dire il vero non è poi una novità assoluta, già quando gareggiavo, con i miei fratelli costruivamo le bici Moser, io stesso ho corso solo con due biciclette, Benotto e appunto Moser. Però quello era un contesto diverso, lavoravamo con l’acciaio, eravamo artigiani e avevamo qualche dipendente. Il carbonio ancora non c’era. Oggi la bicicletta elettrica F Moser è assemblata dai veneti di Fantic Motor, il mio è un compito di promozione e di marketing, giro le fiere e faccio conoscere il prodotto, che tecnologicamente è molto sofisticato».

E come sta andando?

«Le vendite vanno bene, sono reduce dalla fiera di Monterrey, in California, sul circuito motociclistico di Laguna Seca ho percepito molto interesse».

La e–bike è la grande novità degli ultimi anni, nel mondo della bicicletta. Come spiega questo exploit?

«Perché chi non ha tempo di allenarsi, oppure non ha più un’età verdissima, ha comunque la possibilità di fare i suoi giri. E si usa anche in città, dove è molto più sicura ad esempio dei monopattini. Semmai lì il problema è che te la rubano, però i servizi di noleggio e di bike sharing si stanno anch’essi diffondendo velocemente e contengono quel tipo di rischio».

Il rischio di chi va in bicicletta è anche la sicurezza, in Italia il grande traffico sulle strade ostacola la pratica e la diffusione ulteriore del mezzo. Come la pensa?

«È vero che in Italia c’è meno rispetto che altrove, ad esempio in Spagna. Però l’uso della bicicletta si sta diffondendo ovunque, e ci sono Paesi in cui il traffico automobilistico non è così intenso. Certo, pedalare in Oman, come mi è capitato, è tutta un’altra storia, però lì è facile, esci dai centri abitati e c’è il deserto».

È anche vero che l’industria della bicicletta e la sua diffusione sono diventati globali, tanto più a livello sportivo.

«Quando correvo, era già una novità gareggiare con ciclisti americani, allora l’Italia e pochi altri Paesi come Francia e Belgio erano grandissima parte del mondo professionistico di allora. Adesso i ciclisti vengono da tutto il mondo, il movimento è esploso a livello geografico ed è una tendenza che non può che rafforzarsi ulteriormente. Anche sul piano produttivo, sono molti di più che nel passato i Paesi dove si producono biciclette e componenti».

Una tendenza che ha un corrispettivo nei vari segmenti in cui la bicicletta oggi si declina. Non c’è più solo la bici da strada.

«Cominciarono gli americani con la mountan bike e da allora il mondo della bicicletta sportiva si è molto evoluto. Non solo con la e-bike, pensiamo al successo della bicicletta gravel, che consente di percorrere i sentieri sterrati evitando i rischi del traffico e godendo in modo più rilassato del paesaggio».

Allo stesso tempo il contenuto tecnologico della pratica sportiva si è molto arricchito, aprendo nuovi segmenti di mercato che hanno come clienti gran parte dei praticanti, anche quelli non d’élite.

«Quando ancora correvo, fui fra i primi a utilizzare il cardiofrequenzimetro, sembrava qualcosa di avveniristico. Adesso è molto comune, insieme a misuratori di potenza e ciclocomputer. Se parliamo di agonismo, il mondo attuale è molto diverso da quello dei miei anni. I corridori di oggi hanno molte più possibilità di monitorare la propria condizione fisica e quindi accrescerla, migliorando le proprie prestazioni. In gara poi sono diretti dai propri responsabili sportivi attraverso le radioline, mentre ai nostri tempi eravamo noi corridori a fare la corsa. E non dimentichiamo l’alimentazione. Gli agonisti oggi vengono tenuti a stecchetto, sono magrissimi per poter andare più forte in salita. Da questo punto di vista c’è molta più esasperazione».

Parlando ancora di ciclismo agonistico, è opinione comune che l’Italia sia in declino anche perché mancano i grandi sponsor e da noi non esistono più squadre professionistiche d’élite. Quali sono i motivi, a suo avviso?

«Finanziare una società ciclistica World Tour, che è il circuito delle squadre di vertice, richiede un budget di 20-30 milioni l’anno. In Italia non ci sono più grandi aziende che ritengono convenienti simili operazioni. Non dimentichiamo comunque che anche all’estero, dove i grandi investitori privati sono comunque di più, esistono anche gli sponsor emanazione più o meno indiretta di singoli Stati, come ad esempio Uae che è espressione degli Emirati arabi, oppure Astana, di proprietà dello Stato del Kazakistan».

In Italia, però, grandi sponsor non ce ne sono più. Ai suoi tempi erano tantissimi: aziende come Sanson, Faema, Scic, Salvarani e tanti altri.

«La frattura si è creata con gli scandali del doping. I grandi investitori si sono allontanati temendo danni all’immagine. E ora è difficilissimo risalire la china».

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