Rinnovabili, a Nordest è una missione possibile

L’analisi di Alberto Bertucco (Centro studi Levi Cases)

«Fondamentali volontà politica e investimenti immediati»

Fabio Poloni

Solare sì, idroelettrico anche (ma non qui), metano no. Idrogeno con un grosso asterisco. Un Nordest a neutralità carbonica è possibile, «basta volerlo». Dietro questa asciutta affermazione del professor Alberto Bertucco, direttore del “Centro studi di economia e tecnica dell’energia Giorgio Levi Cases” costituito presso l’Università di Padova – raccoglie circa trecento docenti organizzati in 48 gruppi di ricerca – c’è non solo una vita collettiva di studi, bensì anche un distillato di 270 pagine dal titolo “Veneto 100% rinnovabile: fotografia e prospettive”. Si può fare, «partendo però da subito: gli interventi sono tanti e costosi, vanno distribuiti nel tempo». Discorso che vale anche per il Friuli Venezia Giulia, molto “green”.

Più spazio al fotovoltaico

Dal fotovoltaico il contributo più grande, poi idroelettrico e infine eolico, anche se quest’ultimo in Veneto è poco applicabile per mancanza di “materia prima”: il passaggio da energie fossili a rinnovabili passa da queste tre strade. In Veneto la produzione di energia elettrica avviene tramite impianti alimentati da fonti rinnovabili (IAFR) per il 39,6%, dato superiore a quello nazionale di diversi punti percentuali.

Tuttavia, la produzione regionale è una quota piuttosto ridotta rispetto al relativo consumo: solo il 21,6%.

Lo studio è stato realizzato nel 2019 e ha coinvolto più di 150 docenti, «unendo studi che riguardano tecnologia, economia, sociologia», spiega il direttore. Qualora per assurdo si volesse produrre per via fotovoltaica l’interno consumo elettrico regionale (30,460 TWh omettendo le perdite di rete), sarebbe necessaria una potenza fotovoltaica complessivamente installata pari a circa 27,4 GW, ovvero quasi 15 volte l’attuale parco fotovoltaico regionale: ciò richiederebbe l’installazione di circa 130 milioni di metri quadrati di pannelli fotovoltaici (all’incirca il 1,09-1,25% della superficie complessiva regionale).

Oltre al tema dell’impatto ambientale sul territorio, tale diffusione della fonte fotovoltaica richiederebbe enormi, e probabilmente irrealistici, investimenti infrastrutturali per accumulare la sovrapproduzione diurna e distribuirla lungo tutto l’arco della giornata.

«Sebbene sembri irrealistica la copertura dell’intera domanda elettrica tramite soli impianti fotovoltaici, un aumento anche sensibile della loro penetrazione nel mix energetico regionale sarebbe auspicabile», si legge nello studio. «Serve una precisa volontà politica, e l’ambito in questo caso è quello regionale – dice Bertucco – non basta il fotovoltaico sui tetti, serve anche altrove: centri commerciali, parcheggi, aree industriali dismesse potrebbero essere sfruttati da subito. Non è un tabù nemmeno il fotovoltaico a terra, discutiamone, compatibilmente con le esigenze dell’agricoltura. Il fabbisogno richiede superfici ampie».

Il Friuli Venezia Giulia

In Friuli Venezia Giulia le fonti rinnovabili di energia hanno un ruolo di primo piano nel panorama energetico regionale, trovando impiego diffuso sia per la produzione di energia elettrica che per quella di calore, grazie ai 31.040 impianti diffusi in tutti i comuni. Secondo un rapporto Legambiente del 2018, la potenza degli impianti a fonti rinnovabili installati in FVG si attesta a 1.137 MW, rappresentando circa il 43,3% della potenza netta disponibile nella regione.

Tra questa, è il fotovoltaico la tecnologia con maggior potenza installata (45%), seguito da idroelettrico (43,7%) e bioenergie (11,3%). La maggior potenza da rinnovabili è presente nella provincia di Udine con 628,1 MW complessivi, seguita da Pordenone (370,9 MW), Gorizia (94,5 MW) e Trieste (43,6 MW).

Consumare meno

Non semplice, dunque, ma il fotovoltaico è la strada più percorribile a Nordest. È anche una non secondaria questione di costi: «La produzione di un Kwh costa circa tre centesimi con il fotovoltaico, tra i sette e gli otto centesimi per esempio con il termoelettrico – spiega ancora il direttore del centro studi Levi Cases – senza contare i costi “sociali” e sanitari delle fonti fossili».

Non si è parlato finora del secondo aspetto della transizione, altrettanto fondamentale, ovvero il risparmio energetico, «e qui è fondamentale investire nell’efficientamento in edilizia», dice Bertucco. L’idrogeno Tema toccato sempre o quasi quando si parla di transizione energetica: l’idrogeno. Bertucco («ma parlo a nome di tutto l’istituto che dirigo», spiega) ha un’idea ben precisa: «È pulito ma non esistono giacimenti, va prodotto. E produrlo costa energia: se non è “green”, siamo al punto di partenza. Inoltre, presenta problemi di distribuzione: è volatile e infiammabile».

Se l’idrogeno viene quantomeno rimandato («può andar bene se lo utilizzo dove lo produco, in grandi impianti»), il metano è proprio bocciato: «Non è pulito. È vero che non provoca polveri né idrocarburi aromatici, come invece fa il diesel, ma anidride carbonica sì, e non molta in meno del carbone, circa un venti per cento». —

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