Tullio Campagnolo, chi era il genio del “cambio” per la bici
Decisivo nell’ascesa del marchio si rivela un legame costantemente coltivato con il mondo delle corse a tappe e delle classiche, la cui storia è costellata dal nome Campagnolo impresso sulle biciclette degli Anquetil, dei Merckx, dei Gimondi, e degli Hinault, per firmare, anche dopo la scomparsa dell’imprenditore, i successi di un Pantani, di un Indurain, e di un Wiggins, fino al Tadej Pogacar vincitore degli ultimi due Tour de France

VICENZA. Campagnolo, basta il nome per emozionare centinaia di migliaia di ciclisti, non importa se in corsa per una Maglia Rosa o per scollinare davanti agli amici durante una pedalata della domenica.

All’estero, ancora più che nel nostro Paese, tatuarsi sul braccio lo scudetto Campagnolo o farsi regalare per Natale maglia e berrettino della premiata ditta veneta significa sfoggiare le credenziali di un Made in Italy semplicemente impareggiabile, come testimoniato dai 43 Tour de France vinti da corridori sicuri di affidare fughe in salita o volate a settanta orari al “Cambio” che ha fatto la storia del ciclismo.

Di questo successo senza confini del brand raccontano all’ufficio comunicazione dell’azienda di Vicenza leader globale nella componentistica per biciclette, in grado di sfoggiare oltre 398mila followers nella propria pagina Facebook e di attivare a getto continuo chat di cicloamatori affamati di news a proposito di modelli vintage per cui spendere fortune proprio perché fuori commercio.
Il principale artefice di tutto ciò, generato da un gruppo che nel 2020 della pandemia ha incrementato le assunzioni del 21%, portando il totale dei dipendenti a quota 1.123, si chiamava Tullio Campagnolo e veniva al mondo a Vicenza 120 anni fa, il 26 agosto 1901, figlio del titolare di un rinomato negozio di ferramenta dove respirare sin dall’infanzia odori forti di lamiere e vernici.

Anche se l’anno di nascita resta quello della prima trasmissione radiofonica transoceanica tentata con successo da Guglielmo Marconi e del debutto dei premi intitolati all’inventore svedese Alfred Nobel, l’ex ciclista che nel 1933 avvia la propria fabbrica di “pezzi per bici” vive talmente proiettato nel futuro della tecnologia per velocipedi da immaginarlo perfettamente a suo agio in questo presente dove materiali come il titanio possono far schizzare il prezzo di una fuoristrada anche oltre i ventimila euro.

Infatti, nonostante Tullio Campagnolo sia scomparso trentotto anni fa, nel 1983, la parabola tracciata dalla sua azienda resta perfettamente coerente e lineare rispetto agli esordi. La cura ossessiva del prodotto che ispirava il “mozzo a sgancio rapido” da cui tutto è incominciato, ovvero il sistema con cui smontare e montare una bici con una rapidità prima impensabile, è la stessa inoculata nelle otto ruote lenticolari sulle quali il quartetto azzurro dell’inseguimento a squadre è appena volato all’oro olimpico di Tokyo, celebrando un trionfo del Made in Italy completato dalle biciclette Pinarello, dai body Castelli e dai copricapi Kask.

Entrambi i prodotti sono figli di un’esperienza diretta e continua delle corse sperimentata per primo dallo stesso imprenditore, giunto a immaginare quel veloce cambio di ruota sulle rampe della Croce d’Aune, in provincia di Belluno, affrontate come ciclista dilettante messo in difficoltà dalla propria ruota posteriore, più che dalla salita, in un Gran Premio della Vittoria datato 4 novembre 1927.

Fra il più antico e il più recente capitolo di una così lunga epopea, trova posto la complessa e fascinosa evoluzione del cambio che, finché è stato in vita, Campagnolo ha guidato dal suo laboratorio vicentino, approdando a conquiste dall’impatto via via sempre più rivoluzionario nelle corse su due ruote.
Ciò vale per il cambio a bacchetta con cui Gino Bartali domina il Tour de France del 1948, distraendo con le sue imprese milioni di tifosi italiani dal drammatico attentato al segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti, e naturalmente per la prima leva applicata al telaio per rendere tutto ancora più semplice, adottata dal Fausto Coppi primo sul traguardo della Parigi-Roubaix del 1950.
Ma altrettanto preziosi per il mercato di massa si rivelano nei primi anni ‘60 il cambio Record e la tripla corona anteriore con cui aiutare migliaia di cicloamatori a inerpicarsi sulle scie dei loro campioni fino in cima a uno Stelvio o a un Mortirolo.
Decisivo nell’ascesa del marchio si rivela un legame costantemente coltivato con il mondo delle corse a tappe e delle classiche, la cui storia è costellata dal nome Campagnolo impresso sulle biciclette degli Anquetil, dei Merckx, dei Gimondi, e degli Hinault, per firmare, anche dopo la scomparsa dell’imprenditore, i successi di un Pantani, di un Indurain, e di un Wiggins, fino al Tadej Pogacar vincitore degli ultimi due Tour de France.
Sono queste continue salite sul gradino più alto del podio a garantire al brand la capacità di affrontare competitor globali come la giapponese Shimano e l’americana Sram. La Campagnolo del 2021 lo fa forte di oltre cento milioni di fatturato, oltre che di una filiera produttiva dove, attorno alla sede di Vicenza e ai due stabilimenti avviati in Romania, gravitano filiali operative in Francia; Germania, Spagna, Stati Uniti, Giappone e Taiwan.
E’ un assetto planetario dove però il brand resta fedele alla propria terra di origine nel momento di battezzare Ekar, come una cima dell’altopiano di Asiago, il gruppo a tredici velocità messo in commercio per le biciclette del “Gravel”, il ciclismo delle strade bianche e degli impervi sentieri sempre più praticato nel mondo.
“Molto ha chiesto a se stesso e molto ha dato agli altri” dice oggi Valentino Campagnolo a proposito di un padre da cui ha ereditato un’azienda così unica. E’ una verità peraltro nota non solo agli appassionati di biciclette, ma anche a milioni di enologi, buongustai e semplici “padroni di casa” grati alla bellezza e alla funzionalità di un cavatappi Campagnolo che, applicando all’apertura delle bottiglie di vino una tecnologia derivata dalle biciclette, garantisce ai suoi proprietari brindisi a non finire.
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