La triste storia dell'idrovia Padova-Venezia, la Salerno-Reggio Calabria del nord... ma su acqua

PADOVA. Se sessantacinque anni vi sembran pochi… E’ dal lontano 1955 che si parla dell’idrovia Padova-Venezia, definita da qualcuno la Salerno-Reggio Calabria del nord, su acqua anziché su strada; e che dopo un lunghissimo sonno pare avviarsi al risveglio in virtù della mozione votata nei giorni scorsi dalla Camera in maniera pressoché unanime.
Una delle più clamorose incompiute d’Italia. Se finalmente entrerà in funzione, lo farà peraltro con uno scopo diverso rispetto a quello pensato in origine: non più come infrastruttura strategica di trasporto via acqua, ma come strumento di tutela idraulica del territorio, e in particolare del Padovano, dalle piene fluviali del turbolento sistema Brenta – Bacchiglione.

La storia infinita inizia nel 1955, con l’idea delle Camere di Commercio padovana e veneziana di realizzare una vera e propria autostrada d’acqua tra le due città; è il Genio civile di Venezia a farsi carico del progetto. Contemporaneamente si avvia la ricerca dei fondi, e al tempo stesso si innesca una delle tante sotterranee guerre di campanile tipiche del profondo Veneto: politicamente, la Democrazia Cristiana è egemone, ma al suo interno opera la guerriglia tra correnti, specie tra i dorotei dominanti e la minoranza morotea.
Il Polesine, in particolare, cavalca una sua idrovia, la Fissero-Tartaro-Canal Bianco per collegare Mantova con l’Adriatico; e che poi verrà puntualmente realizzata. All’inizio tuttavia padovani e veneziani sembrano vincere la partita: nel febbraio 1963, capo del governo Amintore Fanfani, vengono stanziati 7 miliardi e mezzo di lire a carico dello Stato, e un altro miliardo viene aggiunto dagli enti locali delle due province.
Qui cominciano però le complicazioni. L’anno successivo si decide un cambio di percorso: anziché seguire il Naviglio del Brenta, parallelo all’omonima riviera, e sfociare all’altezza di Fusina, il tracciato del canale viene spostato di un paio di chilometri più a sud, portandolo a riversarsi in laguna attraverso il già esistente canale di Dogaletto, in linea con le bocche di porto di Malamocco.

Nel 1965 nasce il Consorzio per l’idrovia Padova-Venezia, con la partecipazione delle due Province e dei due Comuni capoluogo; e finalmente nel 1968 aprono i cantieri. Sul versante padovano si mette mano ai ponti stradali, su quello veneziano si procede con lo scavo del canale tra il Novissimo e la laguna, i lavori per la conca Romea e la costruzione del ponte ferroviario sulla linea Mestre-Adria. Tutto sembra procedere per il meglio, al punto che nel 1970 i titoli dei giornali assicurano: nel 1975 l’idrovia verrà completata.
Invece tutto si blocca, e per anni. Le cose sembrano rimettersi in moto nel 1977, con una serie di interventi peraltro lunghissimi. Otto anni dopo, le opere realizzate passano di mano, rientrando sotto la competenza del Genio civile di Venezia anche per quanto riguarda la necessaria manutenzione di quanto fin lì posto in essere. Il progetto assomiglia però sempre più a una sorta di storia del sior Intento; al punto che nel marzo 1988, con decreto del presidente della Repubblica, il Consorzio per l’idrovia viene soppresso.

Una fiammella pare accendersi l’anno seguente, quando il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica, stanzia 14 miliardi di lire per far ripartire i cantieri, mentre la Regione ci mette 214 milioni per la necessaria manutenzione dell’esistente, già intaccato dal degrado. Prendono vita alcune infrastrutture collaterali, e sul lato padovano comincia a prendere forma il porto interno, con tanto di banchine e approdi.
Ma nel 1992, con l’esplodere di tangentopoli, tutto si ferma inesorabilmente; e il tracciato dell’idrovia diventa via via un cimitero di cemento, ferraglia e ruggine: tutto ciò che è stato costruito è ormai inservibile. L’opera risulta monca: costruita per poco più della metà, con un ritmo di avanzamento di 470 metri l’anno, e manufatti che cadono a pezzi.
Cominciano ad emergere piani alternativi, inclusa la costruzione di una camionabile che assorba il sempre più intenso traffico autostradale della Padova-Mestre. Ma si pensa soprattutto a un utilizzo come canale scolmatore in funzione di messa in sicurezza dai dissesti idrogeologici che continuano a manifestarsi nell’area, con gravi danni al territorio (vedi i catastrofici eventi del 2010, 2011, 2014, 2017, 2018).

Nel 2012 la Regione commissiona uno studio di fattibilità, ultimato nel 2016; ma a mancare sono i fondi. Che adesso si profilano all’orizzonte, con la mozione della Camera; in cui peraltro lo stato dell’arte dell’opera è fotografato in modo impietoso: “Una serie di monconi inutilizzabili”.
Serve mezzo miliardo di euro, cifra con la quale si potrebbe garantire un doppio uso: come canale scolmatore, in grado di assicurare una portata di 350 metri cubi d’acqua al secondo in caso di piene del sistema Brenta-Bacchiglione; ma anche come canale navigabile di quinta classe, capace di ospitare chiatte attrezzate per caricare container pari a 60 camion o 2 treni merci.
Ad oggi, secondo stime di massima, l’idrovia Padova-Venezia è già venuta a costare alla collettività una cifra compresa tra i 100 e i 150 milioni di euro; una spesa, allo stato, letteralmente buttata. Dall’idea iniziale di dar vita a una moderna via d’acqua di standard europeo, fondamentale in un’adeguata strategia della mobilità, si è passati a un’opera che fa acqua da tutte le parti: con la speranza che serva almeno ad arginare l’acqua reale in arrivo in caso di nuove alluvioni. Al costo di altro mezzo miliardo, come segnalato. Sperando che stavolta non si riveli un nuovo buco nell’acqua.
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