"La pasta è cultura e gli americani l'hanno capito"

Artigianalità, qualità, innovazione, ricerca. Sono gli ingredienti del successo, secondo la ricetta di Giovanni Rana. Uno che di strada ne ha fatta. Lo testimonia la Moto Guzzi 125 rossa, con una grande cesta in vimini montata sul portapacchi, che fa bella mostra di sé nella hall del quartier generale a San Giovanni Lupatoto. La moto con cui il signor Giovanni mezzo secolo fa consegnava tortellini e ravioli ai compaesani. Poi è venuto il tempo della Renault 4 a 3 marce comprata con le cambiali. Dal 1984 l’azienda cresce del 14% l’anno e ha chiuso il 2015 con 545 milioni di ricavi. «Diamo a Cesare quel che è di Cesare», scherza Giovanni, «e dunque diciamo che il 1984 è l’anno in cui ha iniziato a lavorare qui mio figlio Gianluca. In questi giorni sta dandoci una mano suo figlio, che si chiama Giovanni, e dunque con lui incomincia un ciclo nuovo».
Ma la dimensione familiare non è un limite?
«Dipende, nel nostro caso è stata una forza. A ogni stagione dell’azienda corrisponde un diverso apporto di conoscenze e di visione. Ma prima di tutto viene il prodotto, che è un sapere artigiano, mescolato a innovazione e ricerca. E poi viene la pubblicità».
Lei nella pubblicità è l’uomo comune che chiacchiera in aereo con Marilyn Monroe e discute con Humphrey Bogart.
«Fu una gran bella idea. Ma il centro di tutto è che noi italiani sappiamo gestire la qualità nell’alimentare come nessun altro. Esiste un valore inespresso fortissimo, specie per l’export ma anche per impiantare nuove fabbriche in loco per nuovi mercati lontani».

State procedendo al raddoppio dello stabilimento che avete installato a Chicago tre anni fa.
«Io ho sviluppato l’Italia, mio figlio si è occupato del mondo. Io vendevo ogni tanto un bancale di tortellini a qualche grossista straniero. Mio figlio ha internazionalizzato il gruppo, ha avuto ragione lui. Per me era un rischio, ero contrario. Abbiamo oggi tante piccole Rana nel mondo. Il nostro secondo mercato, davvero esplosivo, sono gli Stati Uniti. ’Merica è sempre stato un sogno di noi ragazzini veneti. Lo ha realizzato Gianluca e ora suo figlio Giovanni, che da tre anni sta studiando in America, ci sta aiutando a capirne gusti, cultura, avversità. Abbiamo avuto un ardore straordinario nell’affrontare gli Stati Uniti, investendo 80 milioni di euro. Gianluca si è trasferito a Chicago. Vietato fare i mona in Usa. I maestri pastai delle nostre squadre sono stati molto a lungo a insegnare la cultura della pasta alle maestranze del nuovo stabilimento americano. Perché noi italiani siamo imbattibili sulla qualità».
E che c’entrano innovazione e ricerca con la pasta?
«Ho mantenuto una attitudine da artigiano. Io sono nato pastaio. Facciamo 190 tipi di ripieno. Le nostre macchine sono esemplari unici, in cui ripieno e pasta devono essere trattati bene, come le donne. Il concetto di artigianalità può stare anche nelle grandi velocità. Prendiamo il caso americano. Per ora i nostri concorrenti non hanno nemmeno tentato di copiarci, nemmeno a livello di confezione e men che meno di prodotto. La nostra tecnologia è brevettata e le macchine di lavorazione della pasta le studiamo noi assieme agli ingegneri. A livello di prodotto, abbiamo fatto la pasta sottile fino a 0,9 millimetri di spessore, dando il 50% del peso al ripieno contro il 22% corrente, selezionando le materie prime più pregiate e fresche. Il pesto alla genovese con pecorino, basilico, olio extravergine lo spediamo dall’Italia. Gli americani lo hanno capito subito, anche se mangiano di tutto. E così le nostre linee di produzione vanno giorno e notte. Ma badiamo anche ai gusti locali, abbiamo un approccio da sarti. E dunque una linea di tortellini fritti la riserviamo agli americani, che vogliono per esempio di solito una nota di aglio, che qui nessuno ammetterebbe. In America vogliono ravioli da 14 grammi, li vogliono tanto grandi. Ce li pagano e glieli facciamo».
Ma la sua esperienza può indicare una via anche per il settore agroalimentare italiano?
«Da presidente dell’Associazione produttori di pasta fresca, ma anche guardando alle storie che abbiamo incrociato di tanti altri colleghi che hanno preso la via dell’estero, posso dire che noi italiani abbiamo enormi opportunità da esplorare. La mia storia vale per tanti. Penso a Fiorucci e Beretta per i salumi, a uno dei fratelli Auricchio per il provolone, a Barilla, tutti presenti con stabilimento in Usa».
Ma le dimensioni aziendali italiane di rado consentono simili politiche di sviluppo all’estero.
«Posso citare l’esperienza con Italia del gusto, che è nata da una mia idea. Facciamo le fiere assieme, come gruppo. Stare assieme dà a tutti più valore. Siamo oltre 35 e tanti chiedono di entrare nel consorzio. Lavazza, Barilla, pollo Aia. Stiamo pure organizzando vendite online, anche se a dire il vero ci credo poco con i prodotti freschi. Abbiamo in programma di fare negozi in comune. Finora siamo stati in surplace, ora siamo in fase di maturazione».
Ma sta citando aziende di grandi dimensioni.
«A tutti consigliamo di creare nuovi consorzi, specie nel Meridione dove i prodotti sono spesso di qualità straordinaria e le imprese eccellenti ma troppo piccole. Occorre creare veicoli comuni per sviluppare l’export. Sono reduce da una puntata a Matera dove per olio, sottaceti, formaggi ho detto agli industriali locali un concetto semplice: dovete unirvi, perché da soli la grande distribuzione non vi ascolta nemmeno. Non abbiamo inventato la ruota, sappiamo quanta fatica si fa a fare sistema perché siamo tutti egoisti e individualisti».
Ha mai pensato di lasciare o di vendere l’azienda?
«A 79 anni so che il futuro lo hanno Gianluca e Giovanni. Ma io non smetto di sognare. Ai primi di luglio aggrediamo il Giappone, andiamo a esplorare un nuovo mercato. I giapponesi amano moltissimo il prodotto alimentare italiano, anche più degli americani. Vogliono confezioni piccole, come sono loro. Mi diverto e dunque perché mai avrei dovuto mollare o cedere l’azienda? Tanti anni fa Pietro Barilla venne a chiedermi se vendevo. Aveva simpatia per me, piccolo artigiano con 40 dipendenti e voleva entrare nella pasta fresca. Oggi abbiamo il 39% di quota di mercato in Italia e vendiamo all’estero il 59% dei nostri tortellini e ravioli e sughi».
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