La resistenza del Prosekar per non morire di Prosecco

Presentato nel Carso il Glera 18-10 prodotto dai viticoltori giuliani secondo antichi metodi che rifiutano il Charmat e rivendicano la loro identità enologica

TREVISO. Un modo diverso di mantenere il fragile equilibrio tra business e tutela della tradizione. Questo contrappone, in un’ormai decennale controversia, i produttori veneti di Prosecco e i viticoltori del Carso triestino, costellando di carte bollate la lunga la strada del vino che unisce le due regioni, fatta di pochi vitigni e un’infinità di variabili legate al territorio, alla propria identità e alle caratteristiche organolettiche della terra, e della roccia, su cui affondano le radici giovani barbatelle e viti adulte.

I proseccari trevigiani

Da un lato gli imprenditori del Consorzio del Prosecco, forti di numeri da record e produzioni industriali, dall’altro un manipolo di gagliardi produttori di vini di estrema qualità carpiti da una terra ostica e ingenerosa, intenzionati a difendere il nome del vino che producono da generazioni e, quindi, la loro identità territoriale.

Lo Skerk Glera

A sparigliare le carte di una partita in apparenza scontata è stata la presentazione, la scorsa settimana in anteprima alla Lokanda Devetak di San Michele del Carso, nel cuore dell’area giuliana del Friuli Venezia Giulia, del primo Skerk Glera, uno straordinario vino frizzante realizzato con metodo ancestrale, in contrapposizione al metodo Charmat usato in Veneto. Un Prosecco, non Prosecco, a partire proprio dal nome che non usa, “Prosecco” – perché i vecchi disciplinari che i produttori del Carso hanno tirato fuori dalle soffitte o dalle vecchie cantine, consentivano di denominare così il vino solo se vendemmiato dopo il 18 ottobre, festa di San Luca – e da quello sottointeso, “Prosekar”.

Ìl Pprosekar

È proprio il Prosekar, infatti, l’ultimo vessillo in nome del quale si è rinfocolato lo scontro tra il Consorzio e i produttori del Carso iniziato nel lontano 2009, quando i produttori del Carso presentarono al Tar del Lazio il ricorso contro il decreto dell’allora ministro delle Politiche Agricole, Luca Zaia, per la creazione della nuova Doc Prosecco interregionale Veneto e Friuli Venezia Giulia.

La Doc si è realizzata, perché il ricorso è stato ritirato. In cambio dell’indicazione geografica “Prosecco” a tutela delle produzioni venete e friulane, i viticoltori del Carso chiedevano una serie di misure che potessero rilanciare l’agricoltura triestina, soprattutto sui terrazzamenti del costone carsico da Contovello a Aurisina dove da sempre si coltiva il vitigno Glera autoctono del Carso e dove, guarda caso, c’è un borgo che si chiama Prosecco.

Le promesse, secondo i viticoltori del Carso, hanno trovato una realizzazione solo parziale e, nel frattempo, il Consorzio del Prosecco ha incrementato notevolmente il proprio volume d’affari (466 milioni il numero di bottiglie di prosecco Doc distribuite nel 2018, per vendite al dettaglio di 2, 369 miliardi) e la gamma di prodotti. il nuovo ricorso ritirato È stato di recente ritirato, infatti, anche un nuovo ricorso, presentato contro la nascita del Prosecco Rosé.

Un successivo protocollo d’intesa prevede che il Consorzio della Doc Prosecco inserisca il Prosekar, la cui produzione è legata, per metodo e vitigni impiegati, alla tradizione e alla cultura del Carso, nella disciplinare del Prosecco. Un’arma a doppio taglio spiega il presidente dell’Associazione viticoltori del Carso Matej Skerli, poiché, da un lato dovrebbe garantire una serie di interventi a sostegno dei produttori locali e della promozione del territorio, dall’altro priverebbe il Prosekar del proprio suo bene più prezioso: l’identità.

Il glera 18-10

Ecco allora che la presentazione di questo nuovo Glera 18 –10 di Sandi Skerk si propone come un manifesto di rivendicazione di valori contrari alla massificazione ai quali i viticoltori del Carso, a dispetto delle carte bollate, non intendono rinunciare, come non rinunciano al nome “Prosekar”. Per ottenere un vino come il Glera 18 – 10 di Skerk, ci sono voluti 12 anni, a partire da un vigneto di mezzo ettaro abbarbicato sul costone carsico che rende 10, 15 quintali di uva all’anno e riconquistato al bosco che lo aveva fagocitato. Anni di sperimentazioni e prove su un territorio che nulla concede ai processi industriali.

È un vino ottenuto per il 95 per cento da uve glera, molto diverso dal celebre cugino veneto, all’olfatto, al palato e soprattutto per il colore, che deriva dalla macerazione sulle bucce.

Le caratteristiche

Lunghi metodi di lavorazione e cura estrema del lavoro in vigna, caratterizzano anche altre varietà autoctone di questa zona.

Nella stessa serata è stata presentata anche la Vitovska 67 di Skerlj che nasce da un vitigno che affonda le proprie radici nella roccia del Carso e ritorna a macerare per un anno nella pietra, in tini da 300 litri, sulle proprie bucce. Così anche per il “Kamen” Vitovska Carso di Beniamino Zidarich, un vino che si è nutrito di minerali e fermenta in tini di pietra carsica come una volta.

Dal riposo nella pietra ricava una profonda mineralità e un profilo olfattivo ampio e complesso, di lunga persistenza. Non sono vini giovani, si misurano nel tempo come i viticoltori che li producono rispondendo a poche parole d’ordine e a regole ancestrali: “territorio”, pochi centimetri di terra, tanta pietra, bora e mare, “varietà autoctone”, enologia a basso impatto, “macerazione” che regala una qualità sensoriale unica e, specialmente, “tempo”. – 

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