L’analisi/Il gender gap e l’ingiustizia del lavoro avido

Le ambizioni delle donne si sono fatte strada abbattendo quel modello che non prevedeva, declinate al femminile, aspirazioni di auto-realizzazione in qualcosa di diverso dalla famiglia
Elena Del Giudice

Si raccontava: «Papà fa l’ impiegato (o l’insegnante, o l’operaio) e mamma è casalinga». E quel “casalinga” non era una “diminutio”, ma il riconoscimento che l’uomo di casa guadagnava “abbastanza” per mantenere la famiglia. Era il secolo scorso, certo, ma non è ancora passato remoto, quando il lavoro femminile era accessorio.

Le ambizioni delle donne si sono fatte strada abbattendo quel modello che non prevedeva, declinate al femminile, aspirazioni di auto-realizzazione in qualcosa di diverso dalla famiglia. Le donne hanno lottato per il diritto allo studio, il diritto ad accedere a qualsiasi facoltà universitaria, il diritto al lavoro, alla carriera, all’indipendenza economica, per il diritto di “essere” ciò che volevano essere.

Di strada, guardando indietro, ne è stata fatta, ma la vetta resta lontana. E se parliamo di lavoro al femminile, l’obiettivo è il riconoscimento del merito, non del genere. Che oggi, ancora, non c’è. Nei dati - e in questo numero di Nordest Economia ce ne sono molti - ritroviamo gli ostacoli immutati all’accesso al mondo del lavoro, tanto che il tasso di occupazione femminile è significativamente più basso di quello maschile, e poi il divario si manifesta nelle modalità di assunzione: i part time sono spesso involontari e troppo spesso femminili. Per arrivare alle progressioni di carriera e al divario salariale.

Qui l’ostacolo è l’organizzazione stessa del lavoro, spesso al “maschile”, riconoscibile in quella definizione di “lavoro avido” dell’economista Claudia Goldin, Premio Nobel 2023, che premia - nei salari e nella carriera - chi all’azienda dedica più tempo di quanto dovrebbe.

E solitamente chi non è in grado di farlo, sono le donne perché - a dispetto dei progressi - il lavoro di accudimento e di cura resta un onere prevalentemente femminile. In un’ottica collaborativa, a casa come in azienda, il lavoro avido non avrebbe spazio, e le disparità anche retributive verrebbero a cadere.

Impossibile? Certo che no, basterebbe volerlo. Ricordo che una delle prime indicazioni date da Chiara Mio da neo presidente della FriulAdria fu: stop alle riunioni dopo le 17,30. Ovvero le riunioni si fanno in orario di lavoro. Ed ecco cadere il meccanismo che, in sede di valutazione, finirebbe per premiare chi partecipa assiduamente ai meeting in straordinario, rispetto a chi, avendo figli da riprendere dall’asilo o da scuola, lo straordinario non lo può proprio fare.

E la valutazione passerà dalla disponibilità di tempo al merito, al contributo che ciascuno davvero dà all’azienda. Ripensare un’organizzazione del lavoro a misura di “persona” che rispetti il tempo che ciascuno è tenuto a dedicare alla propria attività, è il primo passo per ridurre il divario di genere, a partire dalle assunzioni.

Le norme, infine, aiutano il cambiamento, lo abbiamo visto nelle società quotate, dove la presenza femminile nei Cda è finalmente aumentata; ora attendiamo con fiducia il recepimento della direttiva Ue sulla parità di retribuzione.

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