L’archistar Ratti: «Robotica e intelligenza artificiale: così cambieranno le nostre città»

Carlo Ratti insegna al Mit di Boston dove dirige il Senseable City Laboratory ed è tra i massimi esperti al mondo sulle nuove tecnologie in campo urbano

Piercarlo Fiumanò

L’architetto e urbanista Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab, Massachusetts Institute of Technology (Mit), è conosciuto nel mondo per il suo lavoro pionieristico nel campo dello studio delle città intelligenti.

Architetto Ratti, lei ha prodotto un anno fa uno studio su Trieste grazie ad un accordo fra la regione Friuli Venezia Giulia e il Mit di Boston. La città ha un’importante comunità scientifica e una dimensione internazionale. Può spiegarci a quali conclusioni è arrivato?

«Oggi le città, all’intersezione tra mondo fisico e digitale, sono uno spazio di ricerca e sperimentazione molto interessante. Un laboratorio vivente. Abbiamo messo insieme un gruppo di ricercatori italiani e americani per studiare diversi aspetti di Trieste, usando dati e intelligenza artificiale. Sono venute fuori molte idee concrete per renderla più accessibile e inclusiva, anche relativamente ai flussi turistici. So che diverse proposte sono al vaglio dell’amministrazione pubblica».

Quali proposte?

«Non solo architettura e urbanistica, ma anche fisica, scienza delle reti, analisi dei Big Data, sociologia e biologia ci possono aiutare a inventare le città di domani. Credo quindi che sarebbe molto interessante coinvolgere su questi temi la comunità scientifica di Trieste, in maniera analoga a quanto stanno facendo città come New York, Amsterdam o Singapore».

L’intelligenza artificiale arriverà nelle nostre città? Come sarà la smart city del futuro?

«L’intelligenza artificiale è già arrivata nelle nostre città e viene usata per esempio per gestire i flussi (veicolari o turistici), far funzionare le reti (telecomunicazioni ed energia), permetterci di gestire meglio la vita quotidiana (acquisti online o telelavoro). Domani le dimensioni della nostra vita influenzate dall’intelligenza artificiale saranno sempre di più. Tuttavia, è importante concentrarci non tanto sugli strumenti ma sui fini. Per questo non mi piace la definizione di Smart City; preferisco piuttosto il termine Senseable dove la tecnologia si mette al servizio della vita quotidiana, per migliorarla».

La pandemia ha cambiato molto della nostra concezione del tempo e del lavoro.

«Pensiamo infatti a quanto è cambiato già negli ultimi anni, con l’accelerata del Covid-19! A cambiare non sarà tanto l'aspetto esteriore delle città, il loro hardware, che evolve molto lentamente, ma il software, cioè i modi di vivere lo spazio».

A Trieste sono tornate le navi da crociera mentre città come Barcellona e Amsterdam hanno deciso di spostarle dal centro cittadino. Come governare uno sviluppo turistico di questo tipo, che alcuni considerano mordi e fuggi, e quali a suo avviso le ricadute economiche?

«Sappiamo che il turismo mordi e fuggi porta poco valore. Questo vale per le navi da crociera o per i soggiorni di breve durata su AirBNB, che portano alla trasformazione delle nostre città storiche in gusci vuoti, ostaggio della cupidigia dei proprietari immobiliari. L’esempio di Venezia è indicativo di cosa non fare. Un caso virtuoso invece è quello di Amsterdam, con politiche che permettono di gestire meglio i flussi riuscendo a portare valore a tutti i cittadini».

Cosa accadrà in futuro?

«In futuro credo che si debba andare verso un nuovo modello di turismo che potremmo chiamare turismo posato. I suoi adepti, i viaggiatori posati, resterebbero per periodi più o meno lunghi in un certo luogo invece di saltare di continuo da un posto all'altro, aiutando a ritrovare il senso di parole come integrazione e contributo civico. Un tempo si trattava di un lusso per le élites, pensiamo a Peggy Guggenheim o Cole Porter a Venezia. Nel mondo interconnesso di oggi i soggiorni a lungo termine potrebbero diventare accessibili a un numero molto più ampio di persone».

Come cambiano gli spazi del lavoro?

«Le videochiamate su Zoom o Teams, con cui milioni di persone hanno acquisito familiarità sin dai primi mesi di lockdown del 2020, consentono a molti giovani di stabilirsi in luoghi lontani da casa senza interrompere la propria vita professionale. Allo stesso tempo, la flessibilità, per altri versi discutibile, della cosiddetta “economia dei lavoretti” (gig economy) potrebbe creare opportunità di lavoro locale andando a servire i bisogni specifici della città».

A Trieste si sta progettando la riqualificazione e riutilizzo del Porto Vecchio teresiano che è un patrimonio urbanistico eccezionale, un’altra città. Come affrontare questa partita secondo lei dal punto di vista della riqualificazione degli spazi e della mobilità urbana?

«Purtroppo, non conosco bene il progetto per cui non sono in grado di esprimermi con cognizione di causa. Ma la sfida del porto è fondamentale. La storia di Trieste ci dice che questa città straordinaria prospera quando può collegare mondi diversi, e soffre quando relegata alla sua posizione decentrata in Italia».

Quale città europea può essere modello per Trieste e il suo porto, in forte sviluppo anche per le sue connessioni intermodali, in una visione sostenibile?

«Guarderei alle città nordiche, che stanno lavorando molto per affrontare le sfide portuali di oggi: automatizzazione robotica, controlli di sicurezza - e poi, assolutamente, decarbonizzazione e integrazione con la rete ferroviaria».

Lei ha scritto che le città, pur occupando solo il 3% della superficie della terra, sono responsabili del 75% delle emissioni e dell'80% dei consumi di energia. Come le amministrazioni delle nostre città devono affrontare la sfida del cambiamento climatico?

«È vero: la sfida del cambiamento climatico si vincerà o perderà nella città! Bisogna lavorare su molti fronti. Per esempio, con il nostro studio CRA-Carlo Ratti Associati, stiamo lavorando con la città di Helsinki a uno dei più grandi progetti di decarbonizzazione urbana al mondo - chiamato Hot Heart. Si tratta di un sistema di isole galleggianti capaci di immagazzinare calore proveniente da fonti rinnovabili e di usarlo per il sistema di tele-riscaldamento della città».

In questo mondo riesce ancora a vincere l’eccellenza?

«Direi che l’eccellenza vince sempre di più. L’aveva intuito nel lontano 1981 il grande Sherwin Rosen, economista dell’università di Chicago. In un celebre articolo intitolato The Economics of Superstars, Rosen faceva notare come in un mondo sempre più interconnesso (globalizzato, diremmo oggi) vince chi eccelle. Questo vale per i professionisti ma vale anche per le città».

Il talento si coltiva al centro o in periferia?

«Diversamente da quanto si potrebbe immaginare, la taglia non è così importante. Si può diventare eccellenza anche in un paesino delle Langhe o della Borgogna, purché si faccia un vino unico al mondo. E a maggior ragione in una città di taglia media come Trieste, se si è capaci di scommettere sulle sue eccellenze. Mi pare che ce ne siano molte – dalla ricerca universitaria alla logistica, dal turismo culturale alla filiera alimentare. A Trieste pensiamo a illycaffè e, perchè no, a Siora Rosa».

Lei ha scritto che «il futuro di Torino è Milano” nel senso che bisogna spingere per una maggiore integrazione tra due metropoli e le rispettive eccellenze. Come si può applicare questo concetto a una città di frontiera come Trieste che si trova a un’ora di macchina da una capitale europea come Lubiana?

«Oggi le distanze non si misurano in chilometri ma in minuti. Con l’alta velocità ce ne vogliono 40 per andare da Torino a Milano, meno che da casa all’ufficio a New York. Per Trieste vedo molte potenzialità a Est, Ovest e Nord, soprattutto se sostenute dall’alta velocità…»

Oggi in un mondo sempre più in conflitto si parla di fine della globalizzazione. E d’accordo?

«Non credo, ma forse stiamo entrando in una fase nuova. Conosciamo tutti il lato brutto della globalizzazione: è quello che a partire dalla seconda metà del Novecento ha portato alla delocalizzazione industriale. Intere filiere che si sfaldano. Mani esperte rimpiazzate da altre mani più a buon mercato, talvolta sfruttate, in altre parti del mondo. E infine una crisi sociale che sfocia in retorica populista, in Italia come negli Usa. Ricette false per un problema vero: la distruzione di posti lavoro e l’impotenza dei singoli di fronte a trasformazioni epocali. Ma globalizzazione vuol anche dire che per vincere si può stare ovunque. Un grande vino, ovunque lo produci, non teme la concorrenza di nessun altro. Potremmo chiamarla la “globalizzazione di nicchia” ed è basata sul fare cose uniche al mondo. Credo che possa offrire molti spunti a Trieste e al Paese». —

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