A Nord stipendi più alti del 35% rispetto al Sud. Trieste la migliore a Nord Est
L’ultima elaborazione della Cgia di Mestre ripropone l’annosa questione degli squilibri retributivi tra le varie aree del Paese.
Permane il divario salariale tra Nord e Sud del Paese. Nel primo caso è più alto del 35% anche, soprattutto grazie a una maggiore produttività. Il dato emerge dall’ultima elaborazione dell’ufficio studi della Cgia di Mestre, realizzata sulla base di dati Inps e Istat riferiti al 2022, che ripropone l’annosa questione degli squilibri retributivi tra le diverse aree del Paese.
A livello regionale sono i lavoratori della Lombardia a vantare la retribuzione media annua lorda più alta, pari a 28.354 euro, quelli calabresi la più bassa, pari a 14.960. La media a Nord Est è di 23.974 (contro i 26.933 del Nord Ovest) a fronte di un numero medio di giornate retribuite pari a 250,7 (255,4 a Nord Ovest). In Fvg si attesta a 23.319 euro a fronte di 253 giorni medi retribuiti, in Veneto a a 23.691 euro a fronte di 254,9 giorni medi retribuiti.
Zoomando sulle province nordestine, nella top ten per retribuzione media lorda annua, troviamo solo Trieste, che si piazza al10° posto con 25.165 euro, restando in Fvg seguono al 20° Pordenone (23.975), al 33° Udine (22.608) e infine Gorizia 42° (21.372).
In Veneto a percepire la maggior retribuzione media annua lorda sono i lavoratori di Vicenza (24.842), provincia che si piazza al 12° posto, seguita al 15° posto da Padova (24.613), al 16° da Treviso (24.528), al 28° da Verona (23.446), al 31° da Belluno (22.939),al 38° da Venezia (21.717), al 49° posto da Rovigo (20.576).
Se guardando alla retribuzione media nelle prime dieci province italiane come detto si trova solo Trieste tra le realtà nordestine, il numero sale invece a quattro se ci si sofferma sulle giornate medie retribuite: Vicenza è seconda (dopo Lecco) con 262,6, Padova quarta con 261,9, Treviso quinta con 261,6 e infine Pordenone ottava con 261,3.
Il tema del divario salariale come detto è di vecchia data. «Le parti sociali – ricorda Cgia - hanno tentato di
risolverlo, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro (Ccnl). L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati. Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste e in molti casi sono addirittura aumentate, perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie che - tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media - sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord. Le tipologie di queste aziende dispongono anche di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante».
«Per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe - secondo Cgia - continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata. Avendo una quota di lavoratori coperto dalla contrattazione collettiva nazionale tra le più alte a livello europeo (98,7 per cento del totale dei lavoratori dipendenti del settore privato), dovremmo “spingere” per diffondere ulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, la decontribuzione e il raggiungimento di obbiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra gli imprenditori e i propri dipendenti. Così facendo, daremmo soprattutto una risposta alle maestranze del Nord e in particolar modo delle aree più urbanizzate del Paese che, a seguito del boom dell’inflazione, in questi ultimi anni hanno subito, molto più degli altri, una decisa perdita del potere d’acquisto».
Oltre ad incentivare l’applicazione della contrattazione decentrata, l’Ufficio studi della CGIA ritiene «che per “appesantire” le buste paga è necessario rinnovare i contratti di lavoro scaduti. A fine giugno di quest’anno erano in attesa di rinnovo 4,7 milioni di dipendenti (pari al 36 per cento del totale). Sebbene il dato sia in calo rispetto allo stesso mese del 2023 (52,8 per cento), la quota di dipendenti privati in attesa di rinnovo è, invece, pari al 18,2 per cento. Non solo. I mesi di attesa per ottenere il rinnovo sono 23,2, ma scende a 4,2 mesi se calcolata sul totale dei dipendenti privati. Insomma, dalla lettura di questi parrebbe che i mancati rinnovi contrattuali interesserebbero più il pubblico, cioè lo Stato, che il privato.
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