La trappola dello zero virgola del Pil, perché la crescita stenta a decollare
Un 2024 al rallentatore rispetto alle previsioni compromette anche gli obiettivi per il 2025. Non è stato sufficiente nemmeno il Pnrr. E La crisi della Germania non può essere un alibi
Un errore è umano, ma più errori possono avere del diabolico. L’Italia ha mancato nettamente gli obiettivi di crescita che si era data per il 2024.
Il governo aveva stimato che il Pil sarebbe avanzato dell’uno per cento e ha dovuto accettare che la fabbrica della ricchezza si è fermata solo mezzo punto più avanti dell’anno precedente.
È colpa del quadro generale, certamente: tutta l’Europa rallenta, il nostro primo partner commerciale – la Germania – vive confusi tempi di debolezza, mentre il resto del continente non fa molto meglio. Come alibi è tuttavia magro, perché c’è responsabilità anche nel manico, nella gracile politica industriale che non dà frutti, e nel riequilibrio fiscale incapace di imprimere la scossa che serve.
Nemmeno il massiccio doping del Pnrr ha risollevato gli spiriti. Il risultato è che andiamo così piano che la tabella di marcia per il 2025 è già in forse. E, con essa, la prospettiva di correggere i conti pubblici quanto occorre e quanto concordato con l’Unione europea.
Siamo nello scivoloso mondo degli “zero-virgola”. Qualcosa in più, o qualcosa in meno, può non fare troppa differenza, però contano la tendenza e i suoi effetti sullo scenario. Con il Piano strutturale di bilancio varato nell’autunno scorso l’Italia ha fissato nell’1,2 per cento il punto di arrivo della crescita stimato per dicembre.
La Commissione Ue ha confermato il dato in ottobre, ma l’Istat ha ammesso poco più di un mese fa che il numero compatibile con la realtà economica è lo 0,8 per cento.
Da colloqui riservati con osservatori indipendenti emerge chiara la percezione che pure questo sia un bersaglio mobile. «Al passo a cui andiamo oggi, non ce la faremo», sentenzia una fonte autorevole. Detto ora, potrebbe non essere un dramma. Siamo ai primi di gennaio, non bisogna perdere né l’ambizione, né la speranza.
L’Istat sostiene che il 2024 è stato salvato dall’export che ha compensato il calo della domanda interna. Gli italiani, per farla breve, consumano con prudenza perché non si fidano appieno del domani. L’auspicio dell’istituto di statistica è che i segnali positivi sul fronte dell’occupazione, per quanto controversi, possano riportare i cittadini a spendere.
Il rischio del 2025 è comunque un calo della domanda esterna, provocato dalla crisi diffusa nei Paesi a cui vendiamo macchinari e prodotti, che potrebbe risultare peggiore se l’amministrazione Trump attuasse l’intento di introdurre dazi massicci sul commercio internazionale. Il loro effetto sarebbe quello di deteriorare l’economia europea direttamente – meno di quanto si teme, assicurano gli esperti – e indirettamente, attraverso il riorientamento (sottocosto) verso il nostro continente dell’offerta cinese colpita da nuove tariffe. Su queste dinamiche si può manovrare sino a un certo punto. Un intervento sull’ambiente di impresa e sul fisco potrebbe aiutare la competitività del “made in Italy” più del liceo omonimo. Servono fatti, non parole.
L’aspetto che preoccupa nelle stime Istat è che, “nonostante il Pnrr e i bassi tassi”, gli investimenti nel 2025 stagneranno. Il fenomeno si lega alla persistente debolezza dell’industria, in particolare del comparto manifatturiero che si piega da due anni, oltre all’incertezza sulle prospettive dell’edilizia, anche a seguito del venire meno degli incentivi.
L’Italia, che dovrebbe essere fucina di prodotti fondata sul lavoro e il talento degli imprenditori e non parco divertimenti, comincia male un anno che si auspica essere all’insegna dell’innovazione: in novembre, secondo l’indice dei fatturati di Confindustria, la manifattura ha perso 5,1 punti e i servizi 3,7, il che ha azzerato i magri progressi precedenti.
«Alla fine il colore della stagione dipenderà dal terzo trimestre, cioè dal turismo, e mettiamoci dentro perfino il Giubileo», spiega un economista di casa Ue. Bene, ma non benissimo, perché è un comparto in cui l’occupazione ha la manifesta tendenza a essere precaria.
Migliorerebbe il clima se il governo, ad esempio, confezionasse ricette che mettano gli immensi risparmi dormienti nei conti bancari alle dipendenze della crescita. Si impongono una strategia e un’operazione-fiducia davvero complesse. E un serio impegno nella caccia di nuovi mercati alternativi a Francia e Germania, per cominciare.
«Mezzo punto», risponde l’esperto europeo quando gli si chiede una scommessa. Avanzeremo dello 0.5 per cento. Di nuovo stagnanti, insomma. Sempre che, precisa, non si ingarbuglino le situazioni francese e tedesca, e i dazi promessi da The Donald siano meno duri dell’annunciato.
Si aggiunge che il costo dell’energia deve rimanere su livelli accettabili – almeno in Italia, è giustificato il dubbio che non lo siano già adesso – e non aver influenza sull’inflazione al punto da frenare la discesa dei tassi, imprescindibile per ridurre il costo del collocamento dei titoli del debito. «Posto l’effetto di trascinamento, per fare un punto di crescita a fine anno bisogna raggiungere lo 0,6 nel primo semestre – spiega l’economista –: poiché siamo usciti al super-rallentatore dal 2024, nulla fa pensare che riusciremo ad arrivarci».
Se l’Italia non cresce, è un problema doloroso che si aggrava qualora l’impatto del minor Pil si riversasse sui conti pubblici e, dunque, sui margini di spesa. Il governo ha accettato di condurre il deficit al 3 per cento del Pil entro il 2026.
Trattandosi di una frazione, la minore consistenza del denominatore appesantisce il numeratore e apre a uno sforzo ulteriore di riequilibrio nella gestione di disavanzo e debito, costringendo a maggiori entrare o minori esborsi rispetto al programmato.
A grandi linee, sono almeno 3 miliardi di correzione. E non è l’Europa che lo chiede, bensì l’esigenza di essere credibili e tagliare così il prezzo da pagare per vendere i Btp, recuperando denari da investire a sostegno dell’economia, della sanità, del sociale e dell’istruzione.
Le diseguaglianze che crescono confermano che siamo deboli e rianimano la vecchia battuta secondo cui “faiblesse oblige”.
«Più pragmatismo e meno propaganda, il problema è sempre lo stesso», ammette l’economista bruxellese. Sprecare tempo sarebbe diabolico. Come dover ammettere di aver sbagliato nuovamente le previsioni, lasciare che i cittadini ne paghino lo scotto e non accettare di avere (anche) delle colpe.
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