Giovani in fuga: per trattenerli è ora di aprire il capitale delle imprese ai lavoratori
Come arginare l’emorragia di giovani che il Nord Italia e il Nord Est stanno vivendo ormai da qualche anno? Per Giuseppe Milan, presidente della Fondazione Capitale & Lavoro, un leva può essere quella di sperimentare e diffondere l’apertura del capitale delle Pmi non solo ai mercati finanziari, ma anche e soprattutto a chi in quelle aziende ci lavora.
L’emorragia di giovani che il Nord Italia, e in particolare il Nord Est, sta vivendo ormai da qualche anno non è più una questione di opinioni o sensazioni, ma un fenomeno supportato da analisi statistiche e numeri, provenienti tra l’altro da fonti diverse, che ne rendono quindi la lettura libera da strumentalizzazioni partigiane.
Quale giudizio trarre, pertanto, dall’analisi di questo fenomeno? Il modello sociale, economico e urbanistico di questi territori, che è stato vincente ed attrattivo per molti decenni determinando crescita economica, culturale, avanzamento nella scala sociale, attrazione di capitale umano da altre aree d’Italia e da Paesi stranieri, sembra oggi aver perso appeal soprattutto verso le nuove generazioni e, ancor più, verso quei giovani che esprimono maggiori potenzialità e ambizioni di crescita.
Si impone quindi la necessità di andare oltre le analisi e i giudizi critici, sui quali molti ormai convergono, per cercare risposte e possibili soluzioni, capaci di restituire nuova competitività e attrattività al nostro sistema economico e territoriale. Perché, se è pur vero che il tema dei bassi salari netti rimane una questione fondamentale, non sembra che dopo decenni di dibattito, il taglio del cuneo fiscale, pur opportuno, sia la soluzione. E non lo è proprio per le ragioni che, ad oggi, non ne hanno consentito una riduzione significativa: il debito pubblico del nostro Paese e il livello delle prestazioni sociali cui siamo abituati.
E’ necessario quindi ragionare anche sui piani diversi, più strutturali, per far evolvere l’intero sistema sociale e territoriale intercettando in particolare la domanda proveniente dai giovani.
Sono due, a mio avviso, le leve principali sulle quali lavorare. La prima, per quanto più impegnativa e a lungo termine, dopo anni di dibattito continua a non trovare risposte soprattutto sul fronte politico. Si tratta dell’attribuzione di identità e dignità metropolitana - anche da un punto di vista urbanistico e infrastrutturale - allo spazio che oggi comprende porzioni di territorio delle province di Padova, Treviso, Vicenza e Venezia.
Non mi riferisco alla città metropolitana costituzionalmente intesa, che di metropolitano non ha nulla se non la definizione amministrativa, bensì a quella che di fatto è cresciuta in questi territori, come esito non pianificato della concentrazione di insediamenti urbani, industriali e di infrastrutture. Oggi quest’area necessita di una propria autonoma identità, anche attraverso la programmazione di specifiche risposte infrastrutturali.
Perchè questo - come hanno evidenziato in particolare per il Nord Est le analisi dell’Ocse ancora nel 2007, in seguito gli approfondimenti di Paolo Costa sulla Civitas Metropolitana post Covid e ancor più di recente i lavori di Patrizia Messina, Giancarlo Corò e Giulio Buciuni - è quanto cercano sia i capitali finanziari che il capitale umano più qualificato.
In questo senso, la realizzazione anche nel Veneto di un vertice di rango metropolitano non si pone in termini competitivi con il tradizionale policentrismo veneto e friulano, anzi ne valorizza le potenzialità e specificità in una logica di rete. A questo infatti ha guardato, fin dall’inizio, anche il processo di unificazione della rappresentanza industriale che, partito da lontano, ha portato alla nascita di Confindustria Veneto Est.
La seconda leva che, credo di poter affermare, si pone in termini di assoluta novità non solo per il Nord Est ma per tutto il Paese, consiste nel pensare e perseguire la revisione del modello di impresa che fin qui ha retto lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Un sistema fondato sulla sostanziale separazione e competizione fra Capitale e Lavoro.
Oggi, questa dicotomia deve trovare nuove forme di convergenza che - recuperando una matrice culturale che è stata alla base della rivoluzione industriale di questi territori nel dopoguerra - sappia trasformare il capitalismo familiare della piccola e media impresa in qualcosa di nuovo, in cui il Lavoro sia parte del Capitale d’impresa.
Per questo, diventa fondamentale sperimentare e diffondere l’apertura del capitale delle Pmi non solo ai mercati finanziari, ma anche e soprattutto a chi in quelle aziende ci lavora. In altri termini, sperimentare nuovi modelli in cui le professionalità più strategiche, i giovani più motivati e qualificati e, a tendere, tutto il capitale umano che condivida questa impostazione, possano trovare qui nel nostro territorio e nelle nostre aziende, una risposta partecipativa anche in termini di presenza nel capitale d’impresa.
Credo che questo approccio possa e debba diventare, in particolare per il sistema economico del Nord Est, una strada originale ed esclusiva per tornare ad essere competitivo ed attrattivo per il capitale umano, a partire dai nostri giovani.
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