Prima era un fenomeno raro, ora è realtà diffusa: la metamorfosi dello smart working e il nuovo modo di lavorare
Dopo un anno di smart working d’emergenza, proviamo a farne un bilancio considerando le luci e le ombre, i pregi e le contraddizioni. Per farlo, però, bisogna essere consapevoli che lo smart working non è nato con il Covid-19. C’era già, come possibile articolazione flessibile del luogo e del tempo di lavoro, anche se era poco usato.
Lo smart working, infatti, è una modalità di lavoro a distanza sperimentata in Italia, a partire dal 2012, ricorrendo alla contrattazione collettiva, per lo più in alcune grandi aziende private. Dal 2017, è disciplinato dal legislatore (con il nome di lavoro agile), nel settore privato e pubblico, dagli articoli 18 e seguenti della legge n. 81.
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Nell’anno della pandemia, cosa è cambiato? Lo smart working ha subito una sorta di metamorfosi. Era un fenomeno volontario di nicchia, con una crescita lenta e circoscritta all’inseguimento di un obiettivo bi-partisan: per il dipendente, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; per il datore, l’aumento della competitività e della produttività.
All’improvviso e bruscamente, con l’emergenza sanitaria (e occupazionale) lo smart working è diventato una forma, massiva e forzata, di lavoro da casa, priva di alternanza con il luogo di lavoro, quale misura precauzionale e di prevenzione anti-contagio. Quindi, da patto volontario di lavoro da remoto per coltivare interessi di tipo privato, è diventato una modalità obbligata, con una duplice finalità sociale: la tutela della salute e la salvaguardia dell’occupazione.
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Il cambiamento, sul piano giuridico, è stato accompagnato da un fitto e disordinato susseguirsi di frammenti di legislazione e di provvedimenti amministrativi, in deroga alle previsioni della legge del 2017: si è pensato in tal modo di semplificare sia le complicazioni burocratiche, sia le regole sostanziali di funzionamento dello smart working. In pratica, per il periodo dell’emergenza, il (nuovo) lavoro agile d’emergenza è diventato una variante, molto alleggerita, del (vecchio) telelavoro casalingo.
Ogni esperienza, tuttavia, può lasciare tracce feconde. Così, la sperimentazione improvvisata e forzata dello smart working ha avuto effetti – specie sulle attività di tipo professionalizzato – sul comportamento creativo e innovativo della persona e delle organizzazioni. A partire dalla straordinaria accelerazione dell’uso delle tecnologie digitali, già a disposizione sui nostri tavoli, per lo più grazie ai soldi dello stesso lavoratore.
L'ANALISI
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Da qui l’esigenza di ragionare a fondo sul contesto sociale, economico e organizzativo, prima ancora che sulle regole dello smart working oltre l’emergenza, quale forma emblematica di trasformazione del lavoro. La grande sfida dell’agilità è quella di declinare in modo diverso il valore del lavoro “smartabile”, anche nelle sue dimensioni territoriali e ambientali. È proprio qui che si intravedono bagliori di futuro: di una rivoluzione da coltivare, ripensando criticamente lo sviluppo del capitale sociale e l’essenza del capitalismo, in sintonia con gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030.
Il tema è molto complesso. Per questo rinvio alle riflessioni più articolate che ho sviluppato in “Il lavoro agile alla prova dell’emergenza epidemiologica”, nel primo dei 5 volumi dedicati a “Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica. Contributo sulla nuova questione sociale”, curati dai valorosi colleghi Garofalo, Tiraboschi, Filì e Seghezzi. Nella convinzione che la battaglia contro il virus richieda un’ampia condivisione dei dati e delle conoscenze scientifiche, tutti i 5 volumi della nuova collana “ADAPT Labour Studies e-Book Series” sono accessibili da chiunque on line gratuitamente. È questo il nostro contributo di giuslavoristi, agli operatori e al territorio, per la gestione dell’epidemia.
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