Le similitudini fra le piazze del ’600 e quelle virtuali

TRIESTE. Sto continuando a leggere in classe le pagine dei “Promessi sposi” dedicate alla peste del 1630. Non per avanzare paragoni impropri, ma perché – come accennavo già nell’ultima puntata di questa rubrica – alcune dinamiche sono molto simili a quelle della pandemia da Covid-19. I miei studenti sembrano molto interessati all’argomento, perché, al di là dei soliti cliché attraverso i quali gli adolescenti vengono dipinti (superficiali, spericolati, ecc.), molti di loro sono decisamente preoccupati.
Nel capitolo XXXI Manzoni spiega come, mentre ancora si discuteva se i casi di malattia osservati nel contado fossero peste o no, «la peste era già entrata a Milano». Il morbo, insomma, entrò di soppiatto nella comunità, che venne colta alle spalle dal “nemico invisibile”, come una certa retorica tende a chiamare anche il nuovo coronavirus: un po’ come è avvenuto da noi nei mesi di gennaio e febbraio, quando ancora pensavamo che il problema riguardasse solo la Cina. Se in occasione della peste manzoniana le autorità cercarono, non sempre in modo efficace, di prendere misure di contenimento, queste iniziative non sortirono gli effetti sperati «per l’imperfezion degli editti, per la trascuratezza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli».
La gente preferisce mettere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi. I medici che tentavano di mettere in guardia la popolazione erano fatti oggetto di odio: «A tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi». Uno di costoro era il protofisico Lodovico Settala: «Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici».
Oggi le “piazze” sono quelle virtuali dei social network, dove spesso assistiamo al linciaggio mediatico degli esperti che provano a dire come stanno le cose, cercando di richiamare la popolazione al necessario senso di responsabilità.
Ma anche allora c’era chi non si risparmiava per alleviare una situazione sempre più drammatica, man mano che i contagi e le morti aumentavano, al punto da chiudere tragicamente la bocca a chi obiettava scetticismo (oggi diremmo “negazionismo”). Nel ’600 erano frati e religiosi, oggi sono medici, infermieri, volontari. È nelle situazioni più difficili che emerge la vera natura di ogni persona: anche questa è una costante atemporale. —
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